Dire che la donna nei regimi nazista e fascista avesse conquistato una parziale emancipazione e una maggiore visibilità pubblica rispetto a prima sembra assurdo, considerando che questi regimi si fanno portatori di ideologie che privano l’Uomo dei fondamentali diritti umani. Ma la verità è che per certi aspetti è successo davvero questo.
Lasciando a parte l’obiettiva negatività di questi due regimi, bisogna constatare che la figura della donna, contro la stessa intenzione in particolare del regime fascista, ha acquisito grande importanza nella società nazi-fascista. Come detto sopra, ciò sembra un paradosso.
Il bellicismo e il culto del capo fanno del nazismo uno dei regimi più ossessivamente virilisti nella storia dell’occidente. Tra le elite dirigenti del nazismo non c’è una sola donna, mentre la funzione essenziale che viene riconosciuta al genere femminile è quella riproduttiva.
Tuttavia il nazismo, anche da questo punto di vista, possiede caratteristiche peculiari. Se la funzione materna delle donne è assolutamente essenziale, il nazismo non vuole che le donne siano solo esclusivamente delle casalinghe.
Le donne devono, per esempio, poter lavorare in accordo con una politica del pieno impiego che ha bisogno anche del loro contributo. E difatti, nell’ambito dei paesi economicamente avanzati, la Germania nazista è una società nella quale la percentuale delle donne che lavorano raggiunge un livello piuttosto elevato (35% di donne che lavorano sul totale della popolazione attiva nel 1933; 37 % nel 1939).
Le donne devono essere madri e contemporaneamente attive lavoratrici: per questo iniziano a svilupparsi strutture di sostegno alla maternità: nel 1934 il regime nazista crea lo Hilfswerk Mutter und Kind (“Ente di assistenza per la madre e il bambino”) che prevede l’assistenza dopo il parto per le madri povere e garantisce un significativo aumento dei servizi sociali destinati ai piccoli, con un poderoso aumento degli asili infantili, che passano dai 1000 del 1935 ai 30.000 del 1941.
Le donne inoltre, nonostante non ci sia per loro spazio tra le elite dirigenti e nelle università e nonostante al maschio sia riconosciuta una assoluta superiorità all’interno della Volksgemeinschaft (comunità nazionale), devono partecipare alla vita pubblica nella misura in cui devono diffondere i principi del nazismo; devono possedere proprie associazioni; devono prender parte alle manifestazioni e alle liturgie pubbliche.
Insomma, col nazismo la prigione della domesticità casalinga almeno in una certa misura si incrina, e molte donne tedesche- in particolare le giovani donne- sembrano apprezzare la vita comunitaria nelle associazioni femminili o il riconoscimento pubblico del ruolo di madri e di lavoratrici che il nazismo offre loro.
Com’è noto, anche il fascismo si fa portatore di un’ideologia fortemente virilista, caratterizzata dal culto del maschio. Ma ciò non impedisce che le donne comincino ad emanciparsi, per lo meno parzialmente.
La politica natalista del fascismo ha, rispetto al nazismo, una curvatura più nettamente anti femminile nel senso che mentre si esalta il ruolo materno delle donne, le si scoraggia pesantemente dall’intraprendere carriere professionali o attività lavorative. Nel 1923 viene proibito alle donne di diventare presidi; dal 1926 non possono insegnare storia, filosofia ed economia alle superiori; nel 1934 si introduce una politica delle “quote negative” per le amministrazioni pubbliche, dove le donne non devono superare una certa percentuale- minoritaria- del personale; nel 1938 si precisa che sia nelle amministrazioni pubbliche sia in quelle private il personale femminile non può superare il 10% del totale degli impiegati. Al tempo stesso, a spingere le donne verso l’esclusivo ruolo di madri provvede la legge del 10 dicembre 1925 che crea l’Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia, ente assistenziale per le madri povere e nubili.
Ma, nonostante ciò, come ci fa notare la storica statunitense Victoria de Grazia, proprio il fatto che il regime radunasse le donne in un’ampia gamma di organizzazioni di partito (le Piccole Italiane, le Giovani Italiane, le giovani fasciste, Gruppi femminili fascisti, Massaie rurali) agiva contro il suo tentativo di escluderle dalla sfera pubblica. In fondo il regime fascista aveva compreso che le sue politiche sociali e sessuali, proprio in quanto ambivano ad essere “totalitarie”, non potevano essere realizzate senza il consenso dei suoi sudditi sia femmine che maschi.
Il culto dello sport per esempio ha come effetto il fatto che le ragazze si ritrovano a fare cose che prima praticavano solo i maschi, e talvolta a farle meglio. Si pensi per esempio ad Ondina Valla, vincitrice di una medaglia d’oro negli 80 m a ostacoli alle Olimpiadi di Berlino del 1936: essa mostra che le ragazze possono fare cose insolite, viaggiare, muoversi, gareggiare, vincere, essere apprezzate e fotografate fuori dalla stretta cornice della domesticità.
Fonti:
Alberto Maria Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande guerra a oggi.
http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/donne-e-fascismo/28864/default.aspx
Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo, Volume 26 di Studi linguistici e semiologici, Il Mulino, 1986