“Non potevo immaginare quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, le mie orecchie furono straziate da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno: il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso”
Questa e molte altre testimonianze simili sono gli unici ricordi che restano del catastrofico terremoto della Marsica, la storica subregione abruzzese situata tra la piana del Fucino e l’attuale Parco Nazionale d’Abruzzo. Il 13 gennaio 1915, quello che colpì l’intera area della Marsica in Abruzzo e in parte del Lazio meridionale fu uno dei terremoti più orribili mai verificatosi e attualmente i dati del servizio sismico nazionale ci parlano di più di 30.000 morti. Ma forse, quel che più fa paura e ci aiuta a riflettere sui danni (psicologici e fisici) che tale fenomeno ha prodotto sull’Italia centrale all’inizio del XX secolo, sono proprio le testimonianze dei superstiti. Essi, nonostante lo shock, le perdite di molti loro cari e di tutto ciò che avevano, hanno avuto la forza di raccontare e di esternare i loro sentimenti e le emozioni che provarono di fronte a quella che sembrò la fine del mondo, il loro tranquillissimo mondo. Tenendo vive le testimonianze possiamo affrontare un’analisi storica, ma soprattutto psicologica, perché da sempre sono i ricordi che ci fanno capire l’importanza di un avvenimento nei confronti di un paese, una regione, un popolo.
Pasquale Di Censo viveva ad Aielli, è morto il 26 febbraio 2015 ed era uno dei pochi testimoni di quel tragico giorno. Il 13 gennaio 1915 aveva appena 4 anni. Di Censo viveva con la madre, Maria Arcangela Maccallini, il padre e altri fratelli. Ha vissuto anche all’estero – Svizzera e Libia – e in Sicilia:
«Stai a sentire e prendi nota. Ho parecchio da raccontare. Vivevamo in una casa in via Sotto le mura, conosciuta anche come via della Fonte. Dietro la nostra abitazione, costruita in alto, c’era un’altra casa che con la scossa è crollata su una parte del nostro tetto. Mio fratello Giovanni era un ragazzetto e si lanciò verso la porta, ma gli cadde il soffitto addosso e rimase sotto le macerie. Mi salvai perché ero ancora nel lettone con mia madre. Mio padre Vincenzo era già uscito per andare al lavoro nei campi e si trovava in una terra non lontano da casa. Eravamo dieci figli, dopo la morte di Giovanni nel terremoto un altro figlio ebbe lo stesso nome. Era il padre dell’attuale sindaco, Benedetto. Il paese fu quasi tutto distrutto dalla scossa. Giorni terribili. Il comitato degli uomini decise che il paese di Aielli sarebbe dovuto rinascere alla Vicenna di Sipari, a due chilometri, ma don Carluccio, il sindaco di allora, aveva le terre più giù e lui voleva la ricostruzione più sotto, quando Peppino Randucce venne col carretto a prendere i documenti per trasferire giù anche il Comune ci fu una rivolta e fu costretto a tornare indietro. Ricordo i disordini e intervennero i carabinieri, così arrivò Stucchine, che era un uomo rurale. Fu lui a urlare: ordine sparso per i campi e ci fu una veloce fuga. Uno dei ricordi che ho più vivo di quegli anni è di quando mio padre saliva in montagna per prendere la legna. Tornava con le frasche a spalla perché non avevamo i somari. Lo aspettavamo alla Fonte della Madonna, le scioglieva e le divideva per i figli, per riportarle a casa. Il terremoto, la guerra… tempi difficili. Ma ci siamo arrampicati per fatti nostri e non ci è mai mancato nulla: pane, vino, parrozzo e patate… Ho mangiato solo roba buona e genuina. Ancora mi alzo in piedi».
Un ignoto sopravvissuto, operaio di Avezzano, in un’intervista riportata dal quotidiano Il Mattino del 14 gennaio 1915:
«Non mi resi subito conto di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stesso stabilimento dove ero occupato: catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina. Non potevo immaginare quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, le mie orecchie furono straziate da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno: il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso. Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muri».
La testimonianza di un comandante, all’arrivo in una frazione di Avezzano (Cese), pochi giorni dopo l’accaduto:
«…la capitale del disastro. Giunti sul posto, constatammo che nessuna casa si era salvata, che il sindaco e 15 dei 16 consiglieri comunali erano periti e che su 1.300 abitanti – parla di Cese, presso Avezzano – solo 230 erano sopravvissuti. Nessuna autorità militare o civile era presente. Facilmente s’immagina lo stato di esasperazione dei superstiti. Le prime parole rivolteci furono di protesta e di rimbrotto, come se nostra fosse stata la colpa se fino a quel momento nessun essere umano aveva potuto soccorrere quello squallore e curare le piaghe che il rigore della stagione e il sudiciume avevano esasperate. Pregai un frate di interporre la sua autorità per esortare quegli infelici a tacere e ad attendere che il medico predisponesse gli strumenti e i materiali per le medicazioni. Bastò la notizia che un medico era tra noi per far tacere ogni voce, mentre rapidissimamente s’improvvisava un posto di medicazione e i feriti si allinearono senza più un gemito; nessuna gara per arrivare primi al soccorso, più d’uno cedette il posto al vicino, dicendo: “Va’ tu che stai peggio”».
La paura, la morte che avvolge i tuoi familiari e conoscenti, l’incredulità generale, l’altruismo e l’amarezza per la completa distruzione di paesi e città: questo e molti altri temi emergono dalle poche testimonianze citate e spesso dimenticate perché, del terremoto, è molto più facile citarne i danni, i numeri delle vittime e la pericolosità su scale di misurazioni invisibili e fini a sé stesse. Eppure ascoltare i testimoni e rileggere le loro storie ci fa comprendere che una tragedia non è fatta solo di numeri e statistiche ma soprattutto di emozioni provate, che sono uniche e ci aiutano a ricordare la caducità della vita, che può spezzarsi quando meno ce l’aspettiamo…