L’impegno, per lo meno nominale, del regime nella lotta alla mafia siciliana inizia con l’invio del prefetto Mori nella seconda metà del 1924 a Trapani e un anno dopo a Palermo. Scelta, questa, assolutamente non casuale: il suo nome era garanzia di efficienza dopo essersi rivelato grazie alla sua elevata statura morale, nel periodo 1917-22, un intransigente prefetto nei confronti dei socialisti prima2 e dei fascisti poi3. Non va inoltre dimenticato che, dopo la presa di potere “legale”4 del fascismo con le elezioni del 1924 vi era la necessità di epurare il Partito dagli elementi più estremisti capitanati da Farinacci, onde favorire la via più moderata che contraddistinse la politica mussoliniana dalla Marcia in poi: in quest’ottica vanno viste la necessità di un prefetto che fosse in tutto e per tutto estraneo ad una formazione fascista5 e la successiva controversa lotta contro Alfredo Cucco.
La prima operazione di vasta portata venne messa a punto da Mori nella notte del 1 gennaio 1926: l’assedio di Gangi, il culmine – per così dire – delle operazioni iniziate dal prefetto nella zona delle Madonie, principale prova dell’impotenza dello Stato nell’età liberale6, che passerà alla storia come la sua impresa più famosa. La scelta del momento non fu casuale, in quanto le rigide condizioni climatiche spinsero i banditi a tornare nelle loro abitazioni; e altrettanto rigido fu il modus operandi scelto dal prefetto. Sicuramente l’operazione fu un successo: certo i banditi non si arresero in seguito ad un ultimatum inviato al sindaco da Mori all’inizio dell’assedio, cosa della quale lui si vanterà successivamente7, ma i rigidi metodi impiegati sortirono il loro effetto. Lui stesso, come riferì in seguito a Child, disse ai suoi uomini di “entrare nelle case dei criminali, dormire nei loro letti, bere il loro vino, mangiare le loro galline, uccidere il loro bestiame e vendere la carne ai contadini della zona a prezzo ridotto”8; iniziarono presto a girare voci di stupri, successivamente smentite9. Ma i fattori determinanti rimasero la cattura di ostaggi in qualche modo legati agli obbiettivi e le trattative segrete con i manutengoli10 più in vista della città. La via in cui venne svolta questa prima grande prova di forza era destinata a diventare un modus operandi piuttosto comune nelle azioni successive.
In totale, le azioni del prefetto fra il 1925 e il 1929 portarono all’arresto di più di 10.000 persone11, il che balza certamente all’occhio come un risultato positivo. Non vanno però dimenticati i modi che Mori scelse per risolvere i tre grandi problemi che ostacolavano il suo operato, cioè le restrizioni alle azioni di polizia, la concessione della libertà provvisoria e la fretta dell’istruttoria12: l’accusa di “associazione a delinquere” divenne un pretesto per condannare qualcuno quando questi non era stato colto in flagrante; venne istituito il carcere preventivo, nonostante le ovvie ingiustizie che questo avrebbe determinato; venne a mancare un vero e proprio “senso di giustizia” nei procedimenti giudiziari, nei quali l’unica cosa importante era combattere il fenomeno mafioso, indipendentemente da chi sarebbe stato – giustamente o ingiustamente – coinvolto13: vennero così a trovarsi spesso in carcere persone innocenti. Anche i metodi usati dalla polizia vennero messi in discussione, in quanto denunciati come eccessivamente violenti; nonostante le ovvie smentite di Mori è ragionevole pensare che in queste accuse vi fosse quanto meno un fondo di verità14. Insomma, come ebbe modo di notare Di Giorgio, per combatterla Mori scese al livello della mafia stessa15. Ma il problema più rilevante fu forse che al tempo… ancora non si aveva chiaro cosa la “mafia” fosse. Infatti, ad esempio, secondo Pitré fino al 1860-70 i termini “mafia” e “mafioso” avevano un’accezione positiva, mentre Mosca riferì che nel 1900 i termini erano ancora usati dai siciliani in accezione positiva16. Facile immaginare quindi quanti potessero essere i fraintendimenti quando ci si ritrovava a doverne decidere la definizione quasi arbitrariamente.
Ritengo che, dopo aver analizzato l’operato di Mori, sia necessario esporre due critiche, una rivolta direttamente a lui – anche se forse non fu proprio una sua colpa o mancanza quanto più una conseguenza dello stato di cose esistente – e una al modo in cui il regime seppe – o meglio, non seppe – far tesoro della sua esperienza e mantenere i progressi acquisiti. Innanzitutto, nonostante si abbiano avuti nel periodo ’25-’30 buoni risultati nella lotta contro la criminalità, si trattò di un’azione superficiale, riguardante i pesci piccoli (molti mafiosi importanti non vennero minimamente toccati perché personaggi influenti17, come ammesso dagli stessi fascisti18 salvo poi “giustificarsi” dicendo che furono proprio questi a tramare per dare l’impressione che la mafia fosse stata sconfitta) e che sottovalutò – se non nella teoria, sicuramente nella pratica – l’importanza di riformare prima di tutto lo “spirito” dei Siciliani, la loro fiducia nelle istituzioni e le loro condizioni di vita, che andarono invece nel Ventennio (come del resto in tutta Italia) peggiorando19. Paradossalmente, come nota Mack Smith, “l’operato di mori – insieme all’abbandono e al declino degli anni trenta – potrebbe aver rafforzato proprio quella diffidenza nei confronti dello Stato che, come il governo, era stato così desideroso di vincere”20. In secondo luogo va notato che fra il 1930 e il 1940 la situazione della Sicilia sembrava, dopo la dipartita di Mori, essere nuovamente precipitata.
Del resto non c’era di cui meravigliarsi: dopo le due amnistie del 1930 e 1932, rispettivamente per le nozze fra Maria José e Umberto di Savoia e per il decennale del regime, e considerato il fatto che la maggior parte delle condanne ebbe una durata fra i tre e i cinque anni21, molti condannati riuscirono a tornare in attività già nei primi anni Trenta22. La rinascita della criminalità è messa in luce ad esempio da una lettera di Agnello, vecchio amico del prefetto, del 1932: “Gli stradali sono nuovamente pericolosi, si è inteso qualche fermo, il vecchio “faccia a terra”, rapine, grassazioni […] Dio ce la mandi buona, ma attraversiamo un brutto quarto d’ora! I giornali hanno ordine di tacere, e ciò è un gran male.”, e dalle diverse lettere firmate e anonime che denunciavano la corruzione diffusa fra i funzionari del partito, “che si sono ignominiosamente arricchiti speculando su tutto”23. L’ambasciatore inglese, nel 1935, riferì che era esploso il banditismo ed era sconsigliato girare la notte24. Non si capisce poi perché, se il problema della mafia fosse davvero stato eliminato dal regime, ci sarebbe stato bisogno di un’ulteriore operazione antimafia, iniziata nel 1933 con la nomina di Gueli (nome del resto non passato alla storia al pari di quello del suo predecessore, se non altro perché sarebbe stato controproduttivo da parte del regime ammettere la persistenza del problema nonostante la sua precedente ostentata sicurezza di averlo eliminato) e con i processi, anch’essi passati in sordina e spesso neanche celebrati come contro la mafia, di fine anni ’30 e inizio ’40 25.
Ulteriore elemento che sfata la convinzione della persistenza del lavoro di Mori negli anni a venire – e che ci pare non lasci dubbi sulla questione – è un verbale redatto dalle autorità palermitane nel 193826 di cui consiglio vivamente a tutti la lettura, che descrive l’intatta forza della mafia nel palermitano, al contrario di ciò che voleva far credere il regime attraverso la propaganda ostinandosi a parlare della malavita usando il passato remoto27 e a dare un falso senso di sicurezza. Gli stessi redattori del documento ammettono che “seguirono [al rallentamento delle operazioni di polizia] vari provvedimenti di clemenza, cui beneficiarono pure gli associati a scopo criminoso. Il rallentamento nelle misure repressive e preventive, che sono invece assolutamente indispensabili ancora per molti anni nell’Isola, non poteva non apportare, come l’esperienza di secoli dovrebbe ora una buona volta insegnare, la ripresa immediata, violenta e terribile, da parte della mafia, che disilludeva chi aveva ritenuto realmente disciolte le sue fila”28.
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Cesare Mori: il prefetto di ferro |
Giunti a questo punto, ritengo sia importante affrontare un tema scottante: l’utilizzo dell’antimafia durante il Ventennio come strumento politico: tristemente celebre è infatti il caso di Alfredo Cucco, esponente dell’ala intransigente del PNF. La faccenda va inquadrata nel clima di rinnovamento post-elezioni, e soprattutto post-Matteotti, al quale ho accennato all’inizio dell’articolo, in un momento in cui – soprattutto dopo l’allontanamento di Farinacci dalla scena politica – gli alleati intransigenti erano diventati scomodi. Entrò inizialmente in polemica con Mori a causa principalmente della non concordanza riguardo i mezzi dell’azione fra lui ed il prefetto29: la tendenza di quest’ultimo era infatti a simpatizzare con il “vecchio ordine” morale e politico, tendenza che ovviamente non si adattava al modus operandi “estremista” di Cucco. Ovviamente ciò non implica che fosse coinvolto in affari mafiosi, anzi, l’opposizione del federale alla mafia era ben conosciuta30. Stupisce quindi che, dopo la sconfitta dell’intransigente Lipani31, venne indagato per corruzione militare ed espulso dal partito, salvo cadere pochi anni dopo tutte le accuse a lui volte – era ormai finita la fase di “purificazione” del regime dagli elementi più estremisti, quindi non vi era necessità di perpetrare ulteriormente la farsa. Alcuni elementi portano infatti a ritenere che si trattò sostanzialmente di un’azione a sfondo politico: come documenta la Whitaker nel suo diario, “Per quanto riguarda Cucco è difficile dire quanto vi sia di vero in ciò che probabilmente è basato più o meno su prove circostanziali. Ha una schiera di nemici e di recente la sua bona lo ha reso estremamente impopolare”32; degno di nota poi il fatto che le suppliche del federale a Mussolini e Galeazzi (al quale inviò anche prove concrete della sua precedente lotta contro la mafia) non furono minimamente prese in considerazione33. Ci non toglie che la figura di Cucco rimane sotto certi aspetti losca, in particolare riguardo le elezioni del 1924, all’interno delle quali i legami con la mafia svolsero un certo ruolo34.
Di: Francesco Fiore
Fonti:
1 La mafia durante il fascismo, Italia: Rai Storia [http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma/la-mafia-durante-il-fascismo/32024/default.aspx)], 39:20
2 Duggan, La mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli: Rubettino 2007, p. 45
3 La mafia durante il fascismo, cit., 13:10; Duggan, cit., p. 45
4 Che tanto legale non fu, vista la frequenza e l’entità delle violenze squadriste messe in atto in modo da intimidire l’opinione pubblica in occasione delle votazioni.
5 La mafia durante il fascismo, 14:40
6 Duggan, cit., p. 60 sgg.
7 Ibid, p. 66
8 Ibid
9 La mafia durante il fascismo, 19:40
10 Chi tiene mano a malviventi, aiutandoli in azioni illecite o delittuose senza avervi parte determinante [Treccani]
11 Basti pensare che, come riporta Duggan, fra l’ottobre 1927 e l’estate 1929 furono inscenati “almeno quindici importanti processi contro mafiosi. I sei più grossi contavano oltre mille imputati.” (p. 231)
12 Duggan, cit., p. 209 sgg.
13 Vedi ad es. Ibid, p. 212-215
14 Ibid, p. 234-236
15 Ibid, p. 243
16 Ibid, p. 102
17 Ibid, p. 215, Coco e Patti, Relazioni mafiose. La mafia ai tempi del fascismo, XL, Roma 2003, p.17
18 Coco e Patti, cit., p. 56
19 Duggan, cit., p.171-72 (per una prospettiva generale vedi http://riscriverelastoria.com/2015/12/22/quando-cera-lui-sfatiamo-i-falsi-miti-sul-fascismo-2a-edizione/, il punto 9)
20 Ibid, p. XIX
21 Coco e Patti, cit., p. 11
22 Vedi ad es. la testimonianza di Anello in Ibid, p. 27-28
23 Duggan, cit., p. 265
24 Ibid, p. 264
25 Coco e Patti, cit., p. 14 sgg.
26 Riportato integralmente in Ibid, p. 53-211
27 Duggan, cit., p. 265
28 Coco e Patti, cit., p. 57
29 Duggan, cit., p. 113
30 Ibid, p. 113-115, 117
31 Ibid, p. 119-121
32 Ibid, p. 134
33 Ibid, p.133
34 Ibid, p. 145; De Felice, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Verona 2006, p. 118-119 (nota 2)
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