Il cannibalismo ai tempi dell’URSS: la storia del Mostro di Rostov

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Il 16 ottobre del 1936 nella piccola cittadina di Yablochnoye, nell’attuale Crimea, nascerà un bambino destinato a diventare uno dei serial killer più famosi della storia contemporanea: Andrei Romanovich 

Chikatilo.


Nato sotto il regime sovietico da una famiglia di contadini collettivi, Chikatilo passa un’infanzia molto travagliata tra fame, carestie e violenze. Sono poche le fonti che affrontano e scavano nella sua fanciullezza, anche se alcuni studiosi, sulla base di testimonianze vicine e del serial killer stesso, parlano di due eventi che possano aver sconvolto la sua giovane età: il primo riguarda la morte violenta per cannibalismo del fratello Stephan di 4 anni, nel 1930, durante una grave carestia che colpì la zona, per mano di una folla feroce e affamata; il secondo riguarda la deportazione del padre, arruolatosi nell’Armata Rossa nel 1941, durante l’invasione nazista dell’Ucraina. Andrei crescerà senza un padre e con una madre, in base ai suoi ricordi, dura e spietata con i figli.

Piene o mezze verità che siano, questi due eventi hanno segnato per il resto della sua esistenza il futuro assassino e, con ogni probabilità, saranno una delle cause scatenanti la sua follia omicida in età adulta. Anche l’adolescenza del ragazzo non fu un periodo semplice, tutt’altro: dopo aver visto e provato sulla sua stessa pelle gli orrori della guerra, dovette fare i conti anche con il bullismo perpetuato dai suoi compagni di scuola che lo presero di mira per la sua estrazione sociale, il suo carattere molto timido e solitario, e per la sua corporatura gracile e i continui svenimenti, causati dalla fame che afflisse la maggior parte della popolazione sovietica nel secondo dopoguerra. Inoltre anche le prime esperienze sessuali non giovarono alla sua autostima: all’età di 15 anni tentò di avere un rapporto con una sua coetanea, ma ebbe un’eiaculazione precoce, e sparsasi la voce del suo “fallimento”, fu nuovamente bersaglio di umiliazioni pubbliche.

Prese così la decisione di studiare da casa, da autodidatta e completò il suo ciclo di studi obbligatori egregiamente. Nel 1954 affrontò l’esame per accedere alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Mosca, ma fu respinto. Completato il servizio militare e iscrittosi al Partito Comunista, nel 1960, Chikatilo decise di trasferirsi a Rodionovo-Nesvetayevsky, un paese vicino alla cittadina di Rostov-na-Donu, ubicata nell’omonimo oblast’, sulla riva destra del fiume Don, accompagnato dalla sorella minore Tatyana (nata nel 1943 e probabilmente prodotto di uno stupro da parte di un soldato tedesco). Qui divenne ingegnere telefonico e cercò di condurre una vita più che normale: nel 1963 sposerà una giovane ragazza del posto, amica della sorella, Fayina, da cui avrà due figli (nel 1965 Lyudmilla e nel 1969 Yuri).

Nel 1971 arriverà una svolta nella sua carriera, riuscendo, dopo anni di sacrifici, ad ottenere la laurea in Letteratura Russa presso l’ateneo di Rostov, accedendo così alla carriera di insegnante. Ma i suoi disturbi psichiatrici che per anni era riuscito a domare, invece si accentueranno in questo periodo. Chikatilo fu allontanato da molti istituti in seguito alle denuncie di colleghi e alunni per i suoi comportamenti violenti e ambigui:  tentava di continuo di avere rapporti sessuali con minori, entrava negli spogliatoi delle ragazze, e aggredì due ragazze, una in piscina e l’altra in classe, tentando invano una violenza sessuale a causa di pregressi problemi  di impotenza. Nonostante le denunce e le testimonianze Chikatilo fu esclusivamente allontanato, mai arrestato. Nel 1978 perse il posto come insegnante in seguito ai tagli all’istruzione del Partito.

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Forse scatenato dall’insicurezza per il futuro e fomentato dalle sue devianze, fu in questo momento della sua vita che Chikatilo decise di commettere il suo primo omicidio: il 22 dicembre dello stesso anno del licenziamento, all’età di 42 anni, uccise una ragazzina di 10 anni, Elena Zakotnova, adescandola al suo ritorno a casa dopo aver passato il pomeriggio alla pista di pattinaggio sul ghiaccio di Rostov. Alcuni testimoni la videro in sua compagnia, ma la moglie di Chikatilo gli fornì un alibi di ferro, scagionandolo. Dell’omicidio fu accusato un 25enne, già noto alle forze dell’ordine e su cui pendeva un’accusa di stupro.

Nel marzo del 1981, iniziò un nuovo impiego come addetto acquisti presso un’azienda di locomotive di Rostov, e ciò gli permise di viaggiare molto, in ogni angolo della Russia. Da questo momento in poi la follia omicida di Chikatilo esploderà e ad ogni suo spostamento corrisponderanno sparizioni e omicidi di donne e bambini che incontrerà sul suo cammino. In totale il serial killer uccise più di 50 persone e molte altre persone scomparse e mai più ritrovate potrebbero essere state preda della sua mano omicida. Si stima che potrebbero essere più di 120 le vittime.

Il suo target preferito erano i ragazzi, sia maschi che femmine, in età infantile o adolescenziale, e tra le vittime adulte si trovano solo donne, di cui alcune prostitute incontrare nei suoi viaggi di lavoro o anche conoscenti del killer stesso. Risulta lampante il fatto che, una volta iniziato ad uccidere, dal 1978, Chikatilo non riuscì più a smettere, anzi, intensificò sempre più i suoi omicidi, raggiungendo il picco nel 1984 con 30 persone uccise e cambiando, nel corso del tempo, anche il modus operandi: se in principio si “limitava” esclusivamente ad assassinare con vari oggetti le sue vittime, l’appagamento sessuale derivante da questa formula languì molto velocemente. Chikatilo iniziò a seviziare anche post-mortem molte delle sue vittime e, in alcuni casi, insoddisfatto, le mutilò per compiere poi atti di cannibalismo (a molte donne assassinate furono asportati con rabbia e violenza l’utero e i seni; ad altre vittime anche gli occhi e, come affermerà anni dopo il suo arresto lo stesso killer, lo fece perché non voleva che quegli occhi si “burlassero” di lui). Fu questo particolare agghiacciante che gli valse il soprannome di “Mostro di Rostov” o “il Macellaio di Rostov”.


Il giudizio sull’operato della polizia e delle amministrazioni nel gestire questa vicenda è sicuramente colpevole. Se fin dall’inizio partirono le indagini, queste furono molto blande e inaccurate. Molti esperti furono consultati, ma molto spesso le loro teorie accantonate come invalide. Furono interrogati anche molti ragazzi, soprattutto malati di mente, alcuni dei quali si accusarono degli omicidi, ma visto il loro status psichiatrico, fu impossibile accusarli o scagionarli.



Ma la principale motivazione per cui Chikatilo riuscì ad agire per così tanti anni indisturbato fu un’altra: gli omicidi erano considerati dalle sfere alte del Partito come omicidi comuni in quanto non era possibile la presenza di un assassino seriale su territorio sovietico, in quanto, questa forma di devianza, era un esclusivo prodotto di matrice capitalista. Per tale ragione gli abitanti delle aree intorno a Rostov non furono mai informati circa il numero crescente delle vittime, e quindi, non essendo in stato di allarme, le famiglie non avvertirono mai i loro bambini e i ragazzi, le vittime preferite da Chikatilo.

Tuttavia, i crescenti timori nella popolazione ucraina, la quale avvertì comunque un senso di insicurezza generale, stimolarono la reazione di Mosca che organizzò in loco una squadra composta da poliziotti, psichiatri e medici legali col compito di scovare e arrestare ad ogni costo Chikatilo. Ma le indagini furono rese ancora più ostiche anche dai referti biologici: lo sperma ritrovato su molte delle vittime risultava appartenente ad un individuo, soprannominato poi Cittadino X, con sangue di tipo AB, ma l’antigene di Chikatilo era A. Ovviamente per lungo tempo si fermarono individui sospetti con il primo gruppo sanguigno, seguendo il linearismo logico, e l’assurda idea di un medico legale secondo cui in alcuni individui sangue e secrezioni corporee possono differire di antigene, fu immediatamente scartata. Ma così era effettivamente: Chikatilo era un caso genetico unico e grazie alla sua stessa natura era imprendibile. 



Dopo un secondo fermo nel 1985, seguì un suo rilascio per mancanza di prove. Solo nel 1990 Chikatilo fu realmente sospettato e pedinato dalla polizia che, nonostante non lo colse mai in flagrante, riuscì a farlo confessare durante il suo terzo fermo. Nel 1992 iniziò il suo processo dove invocò più volte l’infermità mentale, ma un team di psichiatri lo considerò capace di intende e di volere, quindi pienamente colpevole delle sue efferate azioni. Due anni e sei mesi dopo l’inizio dell’iter giudiziario, Chikatilo, rinchiuso nel carcere di Mosca, fu condannato a morte e giustiziato con un colpo di pistola alla nuca, confessando solo una metà dei reali omicidi commessi.

Quando gli si diede la possibilità di parlare, durante il giudizio affermò, che ciò che aveva commesso non lo fece per piacere sessuale, ma semplicemente perché uccidere provocava in lui uno stato di pace interiore; quella stessa pace che negò, anche dopo la morte, alle sue vittime mutilate e cannibalizzate. 

Ai nostri lettori particolarmente appassionati e interessati ad approfondire l’argomento, consigliamo la visione di: 

1) il film Evilenko di David Grieco, ispirato alla biografia di Chikatilo – http://www.imdb.com/title/tt0406754/

2) il  documentario trasmesso su RaiDue dal programma la Linea d’Ombra (qui sotto) 

Fonti:
G. Erlantz, Enciclopedia del crimen y del sadismo, Leer-e, 2011
T. e M. Philibin, Killer Book of Serial Killers, Spurcebooks, 2009
http://self.gutenberg.org/articles/andrei_chikatilo

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