Cattivi, si nasce o si diventa?

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La malvagità è un comportamento insito in ogni essere umano, che lo si voglia ammettere oppure no. Chi più, chi meno, ha avuto modo, in tante occasioni della propria esistenza, di praticarla, di coltivarla e di esibirla agli altri; ovviamente, però, non tutti pratichiamo lo stesso tipo di cattiveria, soprattutto non allo stesso livello. Perché ciò? Come è possibile che un essere umano possa recare danni, anche invasivi, ad un’altra persona? Questo essere umano è malvagio per scelta o per natura? Cattivi, quindi, si nasce o si diventa?

A tutti questi interrogativi una miriade di studiosi, tra cui sociologi, psicologi, psichiatri, hanno cercato di trovare delle risposte, addentrandosi in quel campo di studi riservato alla comprensione del comportamento umano. Philip Zimbardo, noto psicologo statunitense, si addentrerà nella disciplina per mezzo di uno degli esperimenti più cruenti della storia. Siamo nel 1971, Zimbardo, Professore presso la Stanford University, ottiene il permesso di eseguire un esperimento volto a dimostrare la sua teoria secondo cui l’aggressività umana è maggiormente stimolata e accresciuta nel caso in cui un soggetto, non per forza predisposto, venga inserito in un contesto violento.

Per poter provare la sua teoria, lo psicologo elaborò un esperimento da svolgersi presso un finto polo carcerario costruito nel seminterrato del Dipartimento di Psicologia dell’università, e dalla durata indefinita, proprio per testare fino al limite il comportamento umano; selezionò ventiquattro studenti universitari che risposero ad un annuncio su un giornale (attirati dal compenso di 15 $ al giorno), i quali avevano tutti la caratteristica comune di provenire da ambienti sociali agiati, educati, non inclini all’uso di sostanze stupefacenti o alcool e sani psicologicamente; questi ventiquattro furono poi divisi dal team, in modo del tutto casuale, in due gruppi: dodici guardie e dodici carcerati (anche se solamente diciotto dei ventiquattro iniziali prese poi parte seriamente al progetto). Per ricreare un veritiero ambiente carcerario lo psicologo si basò sui suggerimenti e studi dei colleghi e sulle indicazioni di un ex detenuto che aveva scontato 17 anni di condanna in una prigione texana. I due gruppi furono parzialmente istruiti sui loro ruoli, anche se, in particolare le guardie, non ricevettero alcun tipo di addestramento formativo, tutt’altro: Zimbardo lasciò loro piena libertà di agire, come ritenevano più opportuno “educare” i detenuti, quindi come punirli in caso di infrazione.

Una domenica di agosto del 1971 prese avvio la simulazione, più veritiera che mai, con sirene, arresti e incarceramenti preventivi. Tutto era verosimilmente reale: gli interrogatori in caserma, gli avvocati degli imputati giunti a difendere i loro clienti, la schedatura dei criminali, il trasferimento presso il “Carcere di Stanford” e infine l’incarcerazione dei detenuti. Rinchiusi nelle celle, ovvero le aule dipartimentali dotate di sbarre metalliche, i prigionieri passarono il primo giorno ben vigilati dalle guardie che svolgevano una tripla turnazione giornaliera in modo da vigilare su di essi giorno e notte, come in un vero carcere. Tuttavia, sin dal primo giorno, alcuni detenuti non presero la questione seriamente e iniziarono a schernire le guardie che li sbatterono nel “buco”, ovvero una stanzetta adibita all’isolamento.

La violenza iniziava ad emergere sin da subito e sfociò dirompente il secondo giorno, quando un gruppo di detenuti di barricò all’interno di una delle celle, rifiutando di costituirsi. Le guardie fecero quello che “dovevano fare” secondo Zimbardo: si allearono tutte, tanto che molti colleghi dei turni precedenti prolungarono e quelli dei turni postumi anticiparono il loro orario di lavoro, per sedare la rivolta in atto. La situazione nei giorni seguenti tese a peggiorare sempre più, sfociando in atti di pura crudeltà e violenza, in alcuni casi (forse) anche sessuale, da parte delle guardie sui prigionieri, ormai evidentemente traumatizzati e lesi psicologicamente. Al settimo giorno l’esperimento raggiunse livelli insopportabili, soprattutto per i detenuti, divenuti catatonici e depressi. Grazie alle pressioni della dott.ssa Maslach, Zimbardo prese la saggia decisione di porre fine al “gioco” rispedendo i partecipanti alle loro vite. Ma se di tale decisione furono particolarmente euforici i prigionieri e le guardie “buone” (non tutti infatti si trasformarono in John Wayne, ma si attenevano semplicemente a far rispettare le regole), non lo furono altrettanto le guardie “cattive” che persero il loro ruolo superiore all’interno di quel piccolo contesto.

La trasformazione subita da semplici ragazzi in guardie, in così poco tempo, fu sorprendente come ricorda la dottoranda del Prof. Zimbardo, Maslach, sconvolta dal cambiamento che aveva subito uno dei ragazzi-guardia, Hellman, soprannominato John Wayne, con cui aveva parlato poco prima del suo arrivo il giovedì di quella settimana: « Era il “tipo davvero simpatico” con cui prima avevo fatto quattro chiacchiere. Solo che, adesso, si era trasformato in un’altra persona. Non soltanto si muoveva in modo diverso, ma parlava in modo diverso – con un accento del Sud… Gridava e imprecava contro i detenuti» […] « Era una stupefacente trasformazione rispetto alla persona con cui avevo appena parlato, una trasformazione che si era verificata nel giro di pochi istanti, semplicemente varcando la frontiera tra il mondo esterno e quel cortile del carcere. Con la sua uniforma di foggia militare, il manganello in mano, e gli occhiali scuri a specchio che gli nascondevano gli occhi…questo tizio era una guardia carceraria professionale, davvero cattiva». Dagli studi del team emerse, inoltre, che anche tra i prigionieri c’era stato un cambiamento comportamentale non esiguo: molti persero completamente la loro personalità, trasformandosi in totali amebe, incapaci quindi di reagire alle vessazioni delle guardie e dei compagni incarcerati, divenendo completamente dipendenti dalla routine carceraria; inoltre furono soggetti a processi soprannominati dallo stesso Zimbardo di “smascolinizzazione”, ovvero praticare attività ritenute prerogativa femminile, come scrivere lettere, leggere romanzi e, in particolare, accavallare le gambe per coprire le proprie nudità, causa le striminzite tute carcerarie.

Se in un primo momento allo studio di Zimbardo fu attribuito lo status di scoperta scientifica, nonostante lo shock della comunità accademica internazionale, negli ultimi decenni, gli sono state mosse, al contrario, numerose critiche sull’attendibilità del suo lavoro (gli si rimprovera, in primis, di aver focalizzato troppo l’attenzione sui soggetti divenuti tirannici, tralasciando tutte quelle guardie che semplicemente svolgevano il ruolo loro assegnato). Ma, nonostante tutto, l’Esperimento carcerario di Stanford è una base tutt’oggi importante negli studi di psicologia criminale in quanto ha messo in luce come i fattori ambientali possano effettivamente influenzare il comportamento umano. Soprattutto in quei contesti di tipo violento non sono tanto, per Zimbardo, le personalità deviate ad alimentare l’aggressività, bensì tutto ciò che circonda il determinato soggetto che subisce un processo di deumanizzazione (soprannominato dallo psicologo Effetto Lucifero), senza avere particolari condizioni psicologiche disagiate pregresse. Quindi, la risposta all’interrogativo iniziale, per Zimbardo, è più che semplice: cattivi non si nasce, ma lo si diventa.

Nel 2015 è uscito il film “The Stanford Prison Experiment”, basato sui fatti realmente accaduti. Vi alleghiamo il trailer qui sotto. Buona Visione!

Di: Simona Amadori

Fonti:
Piero Bocchiaro, Psicologia del male, Laterza Editori, 2009
Salvatore Cianciabella, Siamo uomini e caporali – Psicologia della disobbedienza, Franco Angeli Editore, 2014
Craig Haney, Curtis Banks, Philip Zimbardo, A study of Prisoners and Guards in a Simulated Prison, Stanford University, 1973, reperibile all’url http://www.zimbardo.com/downloads/1973%20A%20Study%20of%20Prisoners%20and%20Guards,%20Naval%20Research%20Reviews.pdf
http://www.stateofmind.it/2015/06/esperimento-stanford-zimbardo/

3 commenti

  1. Claudio Pira

    Grazie Salvatore, continua a seguirci!

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  2. Simona Amadori

    Grazie Salvatore! Ottimi spunti 😉

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