Nel nostro principale ambito di interesse, la storia del regime fascista, è spesso vittima di questo scempio l’analisi della situazione sociale (riferendoci quindi sia alla situazione delle singole persone quanto alle azioni intraprese dal regime che coinvolsero in qualche modo questo ambito) nell’Italia del tempo, e intendiamo cercare di dare un nostro seppur modesto contributo al chiarimento della questione fra i non addetti ai lavori. Abbiamo quindi deciso di partire dall’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (Onmi) in quanto è forse uno degli aspetti più effettivamente sconosciuti del regime, a parte sfoderarlo superficialmente quando si tratta di elencare, come vedremo tra poco, i grandi pregi del fascismo; e dimostrando – come vedremo tra poco – di non conoscere minimamente l’argomento. Non intendiamo in questa sede analizzare l’organizzazione burocratica dell’ente, e tanto meno la riorganizzazione del 1933 e la sua progressiva fascistizzazione, in quanto riteniamo più importante per quanto ci interessa concentrarci sulla sua funzionalità e i suoi altri aspetti; si tratta poi di informazioni nella loro quasi totalità pacifiche e facilmente reperibili.
L’Onmi viene fondata in base alla legge 2227 del 10 dicembre 1925 e al successivo regolamento approvato con il R.D.L. 718 del 15 aprile 1926, riprendendo dagli archivi ed integrando un testo di legge elaborato già nel 1922 e prendendo come modello la belga Euvre Nationale pour l’Enfance, attiva già dal 1903; dopo un avvio carente e lento, viene riorganizzata nel 1933, per diventare ben più attiva negli anni Quaranta e Cinquanta ed essere smantellata solo nel 1975. Certo l’idea non è deprecabile, anzi: le attività di competenza dell’istituzione, volta principalmente allo scopo di ridurre la mortalità infantile e garantire che le nuove generazioni di italiani crescessero secondo regole “razionali e scientifiche” estendendo e migliorando l’assistenza sociale in tutti i settori, andavano dall’assistenza medica alle donne incinte, alla fornitura di latte in polvere per chi ne avesse bisogno, al lancio di una campagna di informazione sulla cura dei figli e molto altro.
Venne anche dato risalto, col passare del tempo, alle attività di sostegno qualificato e professionale agli assistiti quali cliniche ostetriche e pediatriche, asili nido e “uffici di assistenza sociale”, sedute di consulenza psichiatrica. Non c’è da stupirsi che una simile prospettiva possa destare ammirazione e far comparire questo organismo nelle (ahinoi) celebri liste delle “opere del fascismo”, o che lo possa far definire da certi nostalgici – e non solo, sia chiaro – “una delle opere più grandiose del fascismo”, addirittura un modo per vedere come il settore degli Istituti di beneficenza e di assistenza “maggiormente, forse, si avverte l’anima socialista di Benito Mussolini: esempi di socialità ai massimi livelli che dimostrano come il Fascismo fu la vera affermazione del socialismo in Italia”, per poi snocciolare dati apparentemente sorprendenti, e lamentarsi del fatto che i libri scolastici nascondono questo “straordinario aspetto sociale e popolare del regime”. La perla finale: “per essere credibili occorre dire la verità, anche quando essa non fa il nostro gioco”. Il problema è proprio che, se andiamo a cercare questa fantomatica verità, l’Onmi si rivela essere – usando le parole di Ginsborg – un “gigantesco bluff, profondamente carente sotto vari aspetti”.
Cominciamo dal budget: iniziato con soli 8 milioni di lire l’anno (viene non a caso giudicato fin da subito “potenzialmente devastante”; si pensi che già nel 1927 si notò la sproporzione tra la velocità con cui erano richiesti i sussidi e ricoveri e la velocità del reperimento di mezzi finanziari: “nel primo caso il moto è uniformemente accelerato, nel secondo è uniformemente ritardato”) e arrivato a 150 nel 1941, buona parte di questo viene destinato al mantenimento delle madri nubili, tanto che questa attività rischia di mandare in bancarotta l’organizzazione; e anche se nel 1933 questo particolare sussidio verrà ridotto ad un terzo dell’importo complessivo rimarrà una spesa ingente per le modeste finanze dell’Opera, alle quali contribuiva la tassa sugli scapoli. Proprio a causa degli scarsi fondi disponibili, buona parte del lavoro viene svolta da volontari non retribuiti e coordinati da organismi locali – i Comitati di patronato – composti da politici, sacerdoti, suore e dalle mogli della ricca borghesia tanto criticata da Mussolini, che non hanno quindi sempre una preparazione adeguata e talvolta risultano di difficile reperibilità, mentre il poco personale qualificato dà luogo ad un assenteismo sconfortantemente ampio ed è costretto ad operare in ambienti – i consultori ad esempio, “l’organo tecnico” attraverso il quale l’Onmi avrebbe dovuto svolgere i propri ruoli – gravemente scadenti, quando e se presenti: l’obbligo formale rivolto ad amministrazioni comunali e provinciali di fornire una sede arredata veniva spesso rifiutato o adempito in maniera non adeguata.
Non va dimenticato però che le stime dei fondi di cui sopra si riferiscono unicamente ai fondi ricevuti dallo stato: spesso la beneficenza, largamente incoraggiata e premiata dal regime, coprì un ruolo importante, come per l’annata 1928, in cui l’Opera arrivò ad un budget totale di 80 milioni di lire (quando ne sarebbero servite 137 milioni per renderla completamente effettiva) delle quali solamente trenta statali e il resto da altre fonti, o quella 1930, in cui ricevette grazie alla beneficenza 150 milioni di lire e solo 65 come contributo statale. Come altro risultato dei pochi fondi ad essa destinati, secondo Guarnieri l’Onmi fu poi costretta ad abbandonare i suoi obbiettivi totalitari, concentrandosi solamente sull’assistenza dei casi più disperati, senza riuscire talvolta ad esaurirli.
La Banca riporta dati che sembrano cozzare con questa affermazione, mostrandoci come gli assistiti ammontavano a 850 mila nel 1933 e mantennero un ritmo di crescita che si aggirava fra il 42 e il 50% annuo negli anni seguenti. La questione si può forse chiarire con un accenno alla scarsa attendibilità delle fonti ufficiali, dalle quali traiamo generalmente le informazioni sul numero di strutture e di prestazioni (purtroppo La Banca non ci comunica da dove ha tratto i dati), quale ad esempio “Maternità ed Infanzia”, l’organo ufficiale dell’Onmi o le statistiche ufficiali comunicate dai funzionari: abbiamo un caso in cui a Catanzaro nonostante la mancanza di una maestra d’asilo furono segnati 100 alunni sulla carta, o – ancora più eclatante – un numero del 1935 di “Maternità ed Infanzia” parla di ben 27 Case della madre e del bambino a Napoli e provincia, quando da fonti archivistiche sappiamo che ve ne erano in realtà solamente 7. Infine bisogna tener conto del fatto che nei dati ufficiali riguardanti le prestazioni elargite si contavano per l’appunto le singole prestazioni e trattamenti: un numero indefinito di essi potevano essere rivolti alla stessa persona, impedendoci quindi di dedurre dal loro numero quello degli assistiti. Per quanto quindi le fonti ufficiali siano importanti e talvolta l’unico modo che abbiamo per conoscere la storia, è importante essere consci del fatto che vanno prese con cautela, soprattutto se parliamo di un regime totalitario che diventerà nella seconda metà degli anni Trenta, per citare Bosworth, uno “Stato di propaganda”.
Si ripresenta poi un problema che il regime fascista non riuscirà a superare in nessun ambito, cioè il divario tra Nord e Sud, che anzi andrà durante Ventennio sempre ampliandosi. Per “ragioni poco chiare” la maggioranza dei fondi viene destinata alle città settentrionali invece che al sud, in cui la mortalità infantile è un problema ben più pressante: nel 1943 contiamo 80 Centri di assistenza della maternità e dell’infanzia nel Nord del paese, 43 al Centro, 31 al Sud e solamente 7 nelle isole (ambiente, questo, in cui del resto la radicalizzazione del fascismo risultò molto difficile e spesso non riuscì) – in totale quindi 161 centri per una popolazione di 44 milioni di persone, un risultato certo non eccellente anche se in linea con la situazione in generale presente prima del regime. Deficienza, questa, criticata del resto già al tempo: Buffa scrive in “Maternità ed infanzia” che “l’attività di Onmi si presenta deficiente proprio là dove essa si ravvisa più necessaria e più interessante e cioè nei centri agricoli”, e anzi Ciammaruconi nota come beneficiarono maggiormente dell’Opera le famiglie di città. Solo nel 1937 Bergamaschi, nuovo responsabile dell’Onmi, introduce programmi particolari per le aree in condizioni peggiori quali Sicilia e Sardegna, senza tuttavia ottenere un’equa distribuzione delle attrezzature nel territorio italiano: insomma, in questo come in molti altri ambiti durante il Ventennio il divario tra Nord e Sud del Paese non migliorò, e anzi andò peggiorando. Tutto ciò rischia però di risultare fuorviante e sembrare un quadro eccessivamente negativo se non si tiene conto del fatto che le differenze, come in ogni altro settore, vi erano non necessariamente solo a livello di zona geografica (nord/sud), ma anche tra città e campagna, tra regioni, tra comuni e talvolta perfino tra aree della stessa città.
Fonti:
Stato e infanzia nell’Italia contemporanea. Origini, sviluppo e fine dell’Onmi 1925-1975, a cura di M. Minesso, Il Mulino, Bologna, 2007
M. Innocenti, Le signore del fascismo, Ugo Mursia Editore, Milano, 2001
M. Bettini, Stato e assistenza sociale in Italia. L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia 1925-1975, Edizioni Erasmo, Livorno, 2008