Oggi più che mai agli onori (e disonori) delle cronache, il trasformismo si presenta spesso come garanzia di sopravvivenza e supremazia politica. Uno strumento di contrasto alle opposizioni che perdura da più di un secolo. Tempo fa il termine “trasformismo” voleva indicare la confluenza dei partiti storici italiani in maggioranze parlamentari costruite intorno a problemi contingenti e personalità singole di grande prestigio.
Insomma una connotazione alquanto positiva, al contrario del carattere negativo assunto poi nel corso dei decenni. Viene infatti ora considerata come trasformista qualsiasi azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare, attraverso la prassi del ricorrere a manovre di corridoio, compromessi e clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito. Sebbene tale termine sia apparso per la prima volta nel panorama politico solamente una ventina di anni dopo l’unità d’Italia, già nel 1852 si potè assistere ad un primo avvicinamento tra forme politiche fino ad allora ben distanti. Fu a quei tempi, infatti, che l’allora ministro delle finanze (del Regno di Sardegna) Cavour attuò un primo avvicinamento nei confronti di Urbano Rattazzi, leader della Sinistra storica.
Come abbiamo però già sottolineato, il vocabolo “trasformismo” comparve per la prima volta nel linguaggio italiano solamente intorno agli anni ’80 dell’Ottocento. Nel decennio intercorso tra il 1870 e il 1880 si diffuse, in seguito all’esperienza della “Comune” francese, il timore di una proliferazione del caos anche in Italia. Ciò alimentò la convinzione delle parti liberali della politica di dover difendere la sopravvivenza e gli interessi del sistema socio-politico vigente. Per fare ciò era necessaria una unione governativa tra Destra e Sinistra storica, per riuscire nell’intento comune di respingere le forze estremiste (altrimenti dette “antisistema”). Ciò poteva avvenire solo attraverso una “trasformazione” delle parti, che sarebbe riuscita a sconfiggere l’instabilità politica in cui la nazione era coinvolta. Secondo Quintino Sella, esponente della Destra storica, tale instabilità era causata dal frazionamento partitico, ritenuto inutile poiché gli interessi economico/politici delle parti in campo alla fine si rivelavano essere i medesimi. Anche il leader della Sinistra Agostino Depretis poneva principalmente le stesse considerazioni. Egli infatti intendeva identificare il termine “trasformismo” come il processo di trasformazione dei partiti, che avrebbe dovuto portare all’unificazione delle parti liberali, al fine di creare un sistema politico più efficiente. Insomma, per raggiungere una convergenza era necessario, secondo lui, trasformarsi politicamente. Di fatti in un suo celebre discorso del 1882 affermò:
“Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”
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Agostino Depretis in veste “camaleontica” |
In seguito all’esperienza dei Fasci Siciliani e alla continua crescita del movimento Socialista nel panorama politico, si potè assistere nei primi anni del nuovo secolo ad un evidente avvicinamento tra le forze clericali e quelle liberali. Entrambe le parti avvertirono il bisogno di una comune battaglia alimentata dal sentimento antisocialista e di conseguenza i liberali abbandonarono qualsiasi repulsione anti-clericale assunta fino a quel momento. Le componenti cattoliche subirono quindi una rapida ed evidente evoluzione che li vide abbandonare il ruolo di alternativa al sistema vigente, in un panorama politico che presentava la contrapposizione tra le forze governative/filomonarchiche e quelle socialiste e repubblicane. In questa situazione Giolitti tentò una conciliazione nel quadro sociale tra il movimento operaio e la borghesia, invitando il socialista Filippo Turati a prendere parte all’azione governativa liberale e sollecitando il Partito Socialista ad abbandonare qualsiasi pretesa rivoluzionaria, al fine di intraprendere la strada riformista. In questo modo l’area proletaria avrebbe participato alla vita politica nazionale scongiurando possibili reazioni eversive ed estremiste. Turati rifiutò la proposta ma offrì appoggio esterno alle politiche governative. L’Età Giolittiana sarà così segnata da una politica liberale sostenuta principalmente da componenti bipolari, oltre che per la prima volta direttamente da forze cattoliche.
Il tramonto di quest’epoca coinciderà con la graduale ascesa politica di Benito Mussolini, a quei tempi ancora componente del Partito Socialista. Il futuro Duce d’Italia nel corso degli anni attuerà su di sè una profonda trasformazione in termini politici. Passerà infatti dal definire “un atto di brigantaggio internazionale” le imprese coloniali giolittiane del 1911 ed essere contrario all’entrata in guerra dell’Italia, a posizioni convintamente interventiste. Nel 1914 verrà espulso dal partito e solamente cinque anni dopo fonderà a Milano i Fasci italiani di combattimento. Il Fascismo delle origini differiva profondamente dal programma politico che sarebbe poi stato attuato nel corso del Ventennio. I Fasci italiani infatti presentavano un’impronta maggiormente “di sinistra”, rispetto alle politiche messe in atto successivamente. Nel manifesto di partito del 1919 venivano posti propositi alquanto rivoluzionari per quell’epoca, come l’abolizione del Senato, il suffragio universale, la socializzazione delle imprese e il sequestro totale dei beni delle congregazioni religiose, tutte misure che non avrebbero però visto la luce negli anni successivi.
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Manifesto dei Fasci italiani di combattimento |
Mussolini infatti comprese fin da subito che per possedere il controllo totale del paese, uscito malconcio da anni di disordine sociopolitico, era necessario ottenere il sostegno pressocché totale di qualsiasi organizzazione che facesse leva sui sentimenti popolari. Ottenuto quindi fin da subito il sostegno del Re, realizzò un avvicinamento costante alla Chiesa (pur essendo sempre stato un fervente anti-religioso), fino al raggiungimento degli accordi stabiliti dai Patti Lateranensi del 1929. Il Partito Fascista inglobò al proprio interno variegate componenti (certamente in antitesi con la natura socialista dei Fasci delle origini): dai nazionalisti ai conservatori, dai monarchici agli ex comunisti come Nicola Bombacci (uno dei fondatori del Partito Comunista).
Il partito trasformò così principalmente la propria struttura e la propria anima, mandando in soffitta molti dei propositi con cui si era presentato nel panorama politico, nonostante alcune misure sociali siano effettivamente state attuate dal regime. Se tali alleanze e trasformazioni furono raggiunte a livello nazionale, lo stesso doveva avvenire anche in ambito internazionale. Fin dalla nascita del nuovo governo Nazionalsocialista in Germania, Mussolini non era affatto attratto né da Hitler né dalle politiche portate avanti dal suo partito. Non sarà un caso se, in riferimento alle convinzioni razziali portate avanti dal suo futuro alleato, in un discorso tenuto a Bari nel 1934 il Duce esprimerà tutto il suo disappunto in merito:
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(1977) Enrico Berlinguer e Aldo Moro, i principali fautori del “Compromesso Storico” |
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Le componenti del “Pentapartito” |
Di: RLS Staff
Luigi Musella, “Il trasformismo”, Ed.Il Mulino, 2003