Onorevoli trasformisti: da Cavour ai giorni nostri

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Oggi più che mai agli onori (e disonori) delle cronache, il trasformismo si presenta spesso come garanzia di sopravvivenza e supremazia politica. Uno strumento di contrasto alle opposizioni che perdura da più di un secolo. Tempo fa il termine “trasformismo” voleva indicare la confluenza dei partiti storici italiani in maggioranze parlamentari costruite intorno a problemi contingenti e personalità singole di grande prestigio.

Insomma una connotazione alquanto positiva, al contrario del carattere negativo assunto poi nel corso dei decenni. Viene infatti ora considerata come trasformista qualsiasi azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare, attraverso la prassi del ricorrere a manovre di corridoio, compromessi e clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito. Sebbene tale termine sia apparso per la prima volta nel panorama politico solamente una ventina di anni dopo l’unità d’Italia, già nel 1852 si potè assistere ad un primo avvicinamento tra forme politiche fino ad allora ben distanti. Fu a quei tempi, infatti, che l’allora ministro delle finanze (del Regno di Sardegna) Cavour attuò un primo avvicinamento nei confronti di Urbano Rattazzi, leader della Sinistra storica.

Il Conte, preoccupato dalla deriva clericale e radicale che andava instaurandosi nel Governo D’Azeglio di cui egli stesso faceva parte, attuò assieme al Rattazzi quella unione ribattezzata “connubio” che avrebbe creato una convergenza delle due parti verso posizioni centriste. Ciò avrebbe permesso in primis una difesa delle istituzioni e delle politiche puramente liberali, ma anche un respingimento di quelle forme ideologiche ritenute alternative al sistema vigente (esattamente come avviene oggi), di cui su tutte il Mazzinianesimo. Seppur dovendo affrontare la contrarietà del Re e di D’Azeglio, in breve si riuscì a costituire un governo dei due poli (che oggi chiameremmo “di coalizione”), seguendo la filosofia del “juste milieu” (“il giusto centro”, ovvero il corretto equilibrio nel posizionamento politico). Grazie a tale manovra Rattazzi ottenne la presidenza della Camera e il connubio sopravvisse fino al 1859, per poi rinascere nel 1862, proprio con Rattazzi come primo ministro.

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Come abbiamo però già sottolineato, il vocabolo “trasformismo” comparve per la prima volta nel linguaggio italiano solamente intorno agli anni ’80 dell’Ottocento. Nel decennio intercorso tra il 1870 e il 1880 si diffuse, in seguito all’esperienza della “Comune” francese, il timore di una proliferazione del caos anche in Italia. Ciò alimentò la convinzione delle parti liberali della politica di dover difendere la sopravvivenza e gli interessi del sistema socio-politico vigente. Per fare ciò era necessaria una unione governativa tra Destra e Sinistra storica, per riuscire nell’intento comune di respingere le forze estremiste (altrimenti dette “antisistema”). Ciò poteva avvenire solo attraverso una “trasformazione” delle parti, che sarebbe riuscita a sconfiggere l’instabilità politica in cui la nazione era coinvolta. Secondo Quintino Sella, esponente della Destra storica, tale instabilità era causata dal frazionamento partitico, ritenuto inutile poiché gli interessi economico/politici delle parti in campo alla fine si rivelavano essere i medesimi. Anche il leader della Sinistra Agostino Depretis poneva principalmente le stesse considerazioni. Egli infatti intendeva identificare il termine “trasformismo” come il processo di trasformazione dei partiti, che avrebbe dovuto portare all’unificazione delle parti liberali, al fine di creare un sistema politico più efficiente. Insomma, per raggiungere una convergenza era necessario, secondo lui, trasformarsi politicamente. Di fatti in un suo celebre discorso del 1882 affermò:

“Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”

Agostino Depretis in veste “camaleontica”
La comunione di intenti liberali, la repulsione per le ali estremiste e il timore di squilibri provenienti sia dalla frangia “rossa” che da quella ecclesiastica furono dunque le principali ragioni che portarono alla creazione del governo trasformista presieduto dallo stesso Depretis. Dopo infatti diverse esperienze governative fallimentari per la Sinistra storica, nel 1883 si giunse alla creazione del quinto governo da lui presieduto, sostenuto convintamente dal leader della Destra Marco Minghetti. Depretis rimase a capo dell’esecutivo fino al 1887 e nel corso di quegli anni il governo di coalizione si rivelò incapace di garantire la stabilità tanto agognata, soprattutto a causa delle eterogeneità delle sue componenti. I successivi esecutivi si rivelarono in continuità con i precedenti per quanto riguarda i compromessi politici, sebbene furono fautori di importanti riforme in ambito liberale, come l’approvazione del Codice Zanardelli e la riforma della sanità, attuate da parte del Governo Crispi. La confusione dovuta alla diversità politica delle componenti governative comunque permaneva. Il primo quindicennio del ‘900 registrò il predominio sulla scena politica di Giovanni Giolitti.

In seguito all’esperienza dei Fasci Siciliani e alla continua crescita del movimento Socialista nel panorama politico, si potè assistere nei primi anni del nuovo secolo ad un evidente avvicinamento tra le forze clericali e quelle liberali. Entrambe le parti avvertirono il bisogno di una comune battaglia alimentata dal sentimento antisocialista e di conseguenza i liberali abbandonarono qualsiasi repulsione anti-clericale assunta fino a quel momento. Le componenti cattoliche subirono quindi una rapida ed evidente evoluzione che li vide abbandonare il ruolo di alternativa al sistema vigente, in un panorama politico che presentava la contrapposizione tra le forze governative/filomonarchiche e quelle socialiste e repubblicane. In questa situazione Giolitti tentò una conciliazione nel quadro sociale tra il movimento operaio e la borghesia, invitando il socialista Filippo Turati a prendere parte all’azione governativa liberale e sollecitando il Partito Socialista ad abbandonare qualsiasi pretesa rivoluzionaria, al fine di intraprendere la strada riformista. In questo modo l’area proletaria avrebbe participato alla vita politica nazionale scongiurando possibili reazioni eversive ed estremiste. Turati rifiutò la proposta ma offrì appoggio esterno alle politiche governative. L’Età Giolittiana sarà così segnata da una politica liberale sostenuta principalmente da componenti bipolari, oltre che per la prima volta direttamente da forze cattoliche.

Il tramonto di quest’epoca coinciderà con la graduale ascesa politica di Benito Mussolini, a quei tempi ancora componente del Partito Socialista. Il futuro Duce d’Italia nel corso degli anni attuerà su di sè una profonda trasformazione in termini politici. Passerà infatti dal definire “un atto di brigantaggio internazionale” le imprese coloniali giolittiane del 1911 ed essere contrario all’entrata in guerra dell’Italia, a posizioni convintamente interventiste. Nel 1914 verrà espulso dal partito e solamente cinque anni dopo fonderà a Milano i Fasci italiani di combattimento. Il Fascismo delle origini differiva profondamente dal programma politico che sarebbe poi stato attuato nel corso del Ventennio. I Fasci italiani infatti presentavano un’impronta maggiormente “di sinistra”, rispetto alle politiche messe in atto successivamente. Nel manifesto di partito del 1919 venivano posti propositi alquanto rivoluzionari per quell’epoca, come l’abolizione del Senato, il suffragio universale, la socializzazione delle imprese e il sequestro totale dei beni delle congregazioni religiose, tutte misure che non avrebbero però visto la luce negli anni successivi.

Manifesto dei Fasci italiani di combattimento

Mussolini infatti comprese fin da subito che per possedere il controllo totale del paese, uscito malconcio da anni di disordine sociopolitico, era necessario ottenere il sostegno pressocché totale di qualsiasi organizzazione che facesse leva sui sentimenti popolari. Ottenuto quindi fin da subito il sostegno del Re, realizzò un avvicinamento costante alla Chiesa (pur essendo sempre stato un fervente anti-religioso), fino al raggiungimento degli accordi stabiliti dai Patti Lateranensi del 1929. Il Partito Fascista inglobò al proprio interno variegate componenti (certamente in antitesi con la natura socialista dei Fasci delle origini): dai nazionalisti ai conservatori, dai monarchici agli ex comunisti come Nicola Bombacci (uno dei fondatori del Partito Comunista).

Il partito trasformò così principalmente la propria struttura e la propria anima, mandando in soffitta molti dei propositi con cui si era presentato nel panorama politico, nonostante alcune misure sociali siano effettivamente state attuate dal regime. Se tali alleanze e trasformazioni furono raggiunte a livello nazionale, lo stesso doveva avvenire anche in ambito internazionale. Fin dalla nascita del nuovo governo Nazionalsocialista in Germania, Mussolini non era affatto attratto né da Hitler né dalle politiche portate avanti dal suo partito. Non sarà un caso se, in riferimento alle convinzioni razziali portate avanti dal suo futuro alleato, in un discorso tenuto a Bari nel 1934 il Duce esprimerà tutto il suo disappunto in merito:    


Solamente due anni dopo i due dittatori si accorderanno per il supporto a Franco nella guerra civile spagnola e nel 1938 le leggi razziali entreranno ufficialmente in vigore anche in Italia. Mussolini insomma era riuscito, probabilmente per garantire una certa stabilità politica assicurata da un consenso universale, o più semplicemente per pura convenienza personale, a plasmare totalmente se stesso ed il proprio partito, stringendo accordi e alleanze con chi aveva sempre disprezzato.

La scena politica del dopoguerra sarà principalmente caratterizzata dall’egemonia della Democrazia Cristiana. L’attività governativa democristiana proseguirà per oltre un trentennio, incontrando spesso l’appoggio di forze non centriste. Di fatti, dagli anni ’60 in poi i vari governi otterranno il sostegno di alcuni partiti fino ad allora esclusi da qualsiasi coinvolgimento riformista. Se il governo Tambroni (1960) troverà l’appoggio esterno determinante del Movimento Sociale Italiano (l’esperienza si concluderà in pochi mesi), sarà con la formazione dei vari governi Moro (1963-’68) che si assisterà per la prima volta alla nascita del cosiddetto Centro-sinistra organico. Il primo governo Moro infatti si rivelerà un governo di coalizione guidato dalla DC e al cui interno si inseriva per la prima volta anche il Partito Socialista, con la nomina di Pietro Nenni alla vicepresidenza del Consiglio e Antonio Giolitti (nipote di Giovanni) al ministero del Bilancio. Tale coalizione governativa sopravviverà in maniera discontinua almeno fino al 1974, attuando numerose e importanti riforme nel corso degli anni, come l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, l’isituzione delle Regioni a statuto ordinario e la legge sul divorzio. Sarà però il Compromesso storico a segnare il punto fondamentale degli accordi istituzionali nel panorama politico di quegli anni. Le elezioni politiche del 1976 videro la DC e il PCI attestarsi rispettivamente al 38,7% e al 34,4%. Tali risultati posero le basi per un avvicinamento, già concepito da Enrico Berlinguer qualche anno prima. Il segretario comunista propose, dopo trent’anni di dura opposizione da parte del suo partito, una collaborazione tra le parti, per porre il PCI come forza democratica ben indipendente dalle logiche Sovietiche e ben distante dall’eversione extraparlamentare.

(1977) Enrico Berlinguer e Aldo Moro,
i principali fautori del “Compromesso Storico”

Con la mediazione di Moro si giunse quindi alla formazione del terzo Governo Andreotti, altrimenti detto anche “Governo della non sfiducia”, grazie all’astensione del PCI durante la votazione di fiducia all’esecutivo e il conseguente appoggio esterno del partito. Tale convergenza causò però diversi malumori nell’ala sinistra dei Comunisti e riscontrò il drammatico epilogo nel rapimento (e successivo omicidio) dell’onorevole Moro da parte delle Brigate Rosse, proprio nel giorno del voto di fiducia per il quarto governo Andreotti. Cadde quindi una volta per sempre il tentativo di conciliazione tra due partiti così eterogenei tra loro, ma anche i più importanti della scena politica di quegli anni. L’intero decennio politico tra il 1980 e il ’90 fu dominato principalmente dal cosiddetto Pentapartito, ovvero quella coalizione di governo formata da forze puramente centriste (Democrazia Cristiana, Partito Repubblicano, Partito Liberale) e socialdemocratiche (Partito Socialista e Partito Socialista Democratico). Tale esperienza negò definitivamente il coinvolgimento governativo allargato al Partito Comunista e rafforzò una unione di scopi tra la DC e le forze “laiche”, che videro l’elezione alla Presidenza del Consiglio di Giovanni Spadolini (1981) e Bettino Craxi (1983), primi premier non democristiani nella storia dell’Italia repubblicana.
Le componenti del “Pentapartito”

Lo scandalo di Mani Pulite pose fine alla Prima Repubblica e si giunse di conseguenza all’indebolimento (o addirittura allo sfaldamento) dei partiti “classici” della politica italiana. Da allora si susseguirono governi di Centrodestra e Centrosinistra, che non ottennero però la stabilità sperata, considerando le numerose e a volte eterogenee componenti partitiche che andavano a formare le grandi coalizioni. Negli ultimi anni hanno poi prosperato i governi di “grande coalizione”, riunendo le forze dei poli e cosiddette “di sistema” in un unico progetto governativo. Questi esecutivi si rivelano però a volte invisi e lontani dalle esigenze popolari, sia a causa delle misure di rigore imposte, che per i numerosi “voltagabbana” che soprattutto in queste ultime legislature hanno proliferato nella moltitudine partitocratica. Tali coalizioni si prestano inoltre ad incarnare l’ostacolo principale alla costante crescita di tutti quei movimenti “antisistema”, proprio come avveniva nell’Italia post-unitaria. Le componenti minori, tra l’altro, approfittano dell’esperienza governativa per non andare incontro ad una rielezione poco probabile. A distanza di più di un secolo continua insomma a rivelarsi una prassi comune adottare la tecnica del trasformismo più per garanzia di sopravvivenza che per fini nobili e propositivi.

Di: RLS Staff

Fonti:
Luigi Musella, “Il trasformismo”, Ed.Il Mulino, 2003


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