L’insulo de la Rozoj: un’utopia galleggiante nel Mar Adriatico

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Alla fine del XIX secolo l’oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof inventò una nuova lingua, la Linguo Internacia, che prese poi il nome di Esperanto, dallo pseudonimo “Doktor Esperanto” (Colui che spera) utilizzato da Zamenhof stesso per presentare il suo progetto.  La nascita dell’Esperanto nacque dall’esigenza di rendere democratica la comunicazione tra parlanti linguistici differenti, con l’obiettivo di scalzare l’anglo-centrismo linguistico che, a partire dalla colonizzazione britannica, si affermò sempre più in tutto il mondo.


Zamenhof credeva enormemente nel suo progetto, e come lui, anche tanti altri, tanto che la sua lingua artificiale iniziò ad essere utilizzata da molti come mezzo linguistico, tuttavia la moda fu passeggera e, in breve tempo, la Lingua Internacia diventò desueta e relegata allo studio mnemonico come il latino.


Ma con gran stupore, all’alba degli anni ’60 del ‘900, l’Esperanto tornò in auge, quando fu adottato come lingua di Stato di una Micronazione sorta in acque territoriali italiane. 

Come fu democratico l’intento di Zamenhof, anche la nascita dell’Isola delle Rose partì da un’esigenza simile, per alcuni versi pacifista. Da ricordare il periodo delicato che stava attraversando lo Stato Italiano: la lotta tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana al Parlamento, quindi l’instabilità politica e la crescente disillusione nel futuro, data anche dalle forti pressioni internazionali della Guerra Fredda.



Alla fine degli anni ’50 l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, come tanti altri italiani dell’epoca, era stanco della critica situazione e la fantasia lo portò a sognare la nascita di un suo luogo-rifugio, protetto da tutto il marasma che lo circondava, dove pace e fratellanza sarebbero state le parole d’ordine. Un sogno alquanto utopico, molti dissero, ma Rosa non desistette e cercò di dare forma e vita al suo progetto, partendo in primis dall’aspetto legale: era possibile farlo? Se sì, come?

Avendo dalla sua parte gli studi ingegneristici, Rosa iniziò così la costruzione della sua “capanna” fatta di tubi e acciaio, tanto leggera da poter galleggiare, ma altrettanto stabile da poter resistere alle forti correnti del mare aperto. Il restante punto interrogativo riguardava l’individuazione di un luogo adatto all’installazione dell’isola: il sito fu scovato, dopo vari sopralluoghi tra il 1960 e il 1962, al largo di Igea Marina (RN)[1] grazie alla collaborazione con la moglie di Rosa, Gabriella Chierici, direttrice tecnica del progetto, la quale, insieme al consorte, fondò la SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento).
Fino al 1963 i lavori di costruzione della piattaforma nei cantieri navali delle cittadine balneari antistanti il sito procedettero a rilento a causa di alcuni impedimenti tecnici e finanziari, a cui, l’anno seguente, si aggiunsero anche alcune problematiche burocratiche, promosse dalle Capitanerie di Porto di Ravenna, Rimini e Pesaro, che accortesi finalmente della costruzione abusiva, ostacolarono in tutti i modi Rosa e il suo team.


Ma “fatta la legge, trovato l’inganno”: Rosa fu in grado di scovare vari escamotages legali per poter continuare a tradurre le sue fantasie in concrete realtà. La costruzione della piattaforma procedette a rilento anche per tutto il 1965 e 1966, soprattutto in quest’ultimo anno, quando la Capitaneria di Porto riminese intimò lo staff di sospendere definitivamente i lavori, in quanto privi di autorizzazione. Sorsero inoltre altri problemi con uno dei colossi del settore petrolifero italiano, l’ENI, che intanto si era auto legittimata – con lo pseudo benestare dello Stato Italiano –  come proprietaria della stessa area marittima di Rosa (ma effettivamente violando così il diritto internazionale, in quanto le acque protagoniste della disputa non appartenevano al territorio italiano, ma come ben documentato dallo stesso Rosa, erano acque internazionali).

L’ingegnere bolognese andò comunque avanti nella sua estenuante epopea, in barba alle disposizioni delle autorità, e nel 1967 le perforazioni per l’installazione dell’isola portarono anche alla felicissima scoperta di una falda di acqua dolce, che avrebbe reso autonoma la piattaforma dal punto di vista idrico. Il ’67 fu l’anno dell’exploit per Rosa e il suo sogno: nell’agosto la piattaforma, ormai conclusa, fu aperta al pubblico che accorse entusiasta e curioso, attirando anche sguardi internazionali.


Finalmente, dopo quasi 10 anni tra progettazione e lavori, il 1° maggio 1968 l’Insulo de la Rozoj o l’Isola delle Rose dichiarò l’indipendenza e con essa giunse anche tutto l’apparato governativo, e soprattutto indentitario di cui ogni Stato necessita: il Presidente, ovviamente Giorgio Rosa, nominò Dipartimenti – ossia i Ministeri – e relativi Presidenti di ciascuno;  lo stemma nazionale composto da tre rose rosse con gambo verde posizionate su uno scudo bianco sannitico; l’inno nazionale preso dalla prima scena del terzo atto dell’Olandese Volante di Richard Wagner dal titolo “Steuermann! Lass die Wacht!” (“Timoniere! Smonta di guardia!”); un sistema filatelico dotato di suo valore specifico, il Milo (Miloj al plurale), corrispondente ad una Lira italiana (da precisare, però, che la micronazione non emesse mai una sua moneta); e infine, una sua lingua. Nonostante, infatti, tutti gli abitanti dell’Insulo fossero madrelingua italiani, si decise di adottare una lingua a parte che rispecchiasse quel principio democratico che animava il cuore di Rosa e dei suoi Argonauti. Come consigliato dal padre francescano Albino Ciccanti, amico di Rosa e attivo linguista, fu scelto l’Esperanto che battezzò l’isola prima in Libera Teritorio de la Insulo de la Rozoj, e in seguito in Republisko de la Insulo de la Rozoj.


Il clamore per l’apertura ufficiale arrivò anche all’orecchio del Governo italiano, ma solo qualche mese più tardi, il 24 giugno, quando la Repubblica fu presentata ufficialmente al mondo intero per mezzo di conferenza stampa. Il via-vai di imbarcazioni, grandi e piccole, partite da Rimini per curiosità e anche per condivisione dell’ideale, rese addirittura necessario il consolidamento del porto di attracco ribattezzato “Haveno Verde” (Porto Verde). Le autorità italiane, nonostante cercarono di ostacolare la costruzione della piattaforma, sin dal principio considerarono l’iniziativa di Rosa un’esclusiva trovata turistica per soldi facili, e capirono con estremo ritardo che cosa stesse realmente succedendo nell’Adriatico. Cercando di correre il più velocemente possibile ai riparti, furono richieste due interrogazioni parlamentari sullo “Stato burletta” che approvarono l’istituzione di un blocco navale intorno all’isola, che evidentemente non piacque agli isolani, tanto che Rosa minacciò di installare una radio libera sulla piattaforma per denunciare i vili atti italiani. Il Governo non disposto alla figuraccia internazionale, dopo poco più di 55 giorni dalla dichiarata indipendenza, inviò le forze militari per irrompere sull’isola e proclamare un embargo, ponendo così fine all’esperienza rivoluzionaria e pacifista della Repubblica dell’Isola delle Rose.

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L’11 Febbraio 1969, per ordine del Parlamento, fu rasa al suolo da cariche esplosive e così dimenticata dall’opinione pubblica, ma non da Rosa che mai si pentì di ciò che fece per realizzare la sua utopia.  

Ai nostri lettori consigliamo la visione del documentario «Isola delle Rose – la libertà fa paura», prodotto da Cinematica
Qui sotto il trailer:

Di: Simona Amadori

Fonti:
Duillio Chiarle, Micronazioni: Storia dei più piccoli Paesi del mondo, Createspace Independent Pub, 2012
Anna Kovakov, Imagined Utopias in the Built Environment: From London’s Vauxhall Garden to the Black Rock Desert, Cambridge Scholars Publishing, 2017
http://www.lastampa.it/2012/09/10/societa/mare/societa-e-cultura/l-isola-delle-rose-fu-un-peccato-d-ingenuita-bFrY5CQXne7kvLAmsygA8L/pagina.html


[1] Per i più curiosi qui le coordinate GPS: 44°10’48’’ N 12°36’00’’ E

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