Le piccole vittime degli uomini del disonore

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È opinione diffusa credere che le organizzazioni mafiose non abbiano mai attuato le loro azioni criminali a danno di giovani vite, adottando un fantomatico codice d’onore che tutti gli affiliati sarebbero tenuti a rispettare. Eppure sono molti i minorenni caduti vittime della violenza mafiosa, che contraddicono in maniera assoluta tali infondate credenze.

10 Marzo 1948
È sera, è già buio, ma Giuseppe è lì, nel suo paese con il pascolo, come ogni sera. La luna piena risplende in cielo e quella notte di marzo soffia una sottile brezza, che rende tutto ancora più piacevole. Tra le tante caprette, una si allontana dal gruppo e Giuseppe, che è un ragazzotto sveglio, se ne accorge subito. Affretta il passo e recupera la bestiola per il collo, ma è distratto da qualcos’altro. Dal basso dei suoi 13 anni, si rende conto di cosa sta avvenendo.
Un uomo, lassù, in cima alla rocca, urla, si dimena, tenta di divincolarsi.
Poi il silenzio. Tutto tace.
Il volo.

Peppino scende dal colle. È sconvolto, grida, straparla, si dispera, ha la febbre alta. “L’ammazzarono, l’ammazzarono.” Ripete nel letto d’ospedale. “Lo iettarono, lo iettarono.” I medici, l’iniezione, Peppino dorme. Peppino non si sveglierà più.

Giuseppe Letizia, pastorello corleonese di soli 13 anni, muore così, ucciso da un’iniezione praticata dal dottor Michele Navarra, l’allora capomafia del paese. La sua “colpa” fu quella di aver assistito all’omicidio di Placido Rizzotto, sindacalista che da tempo si batteva a difesa dei contadini della zona.
Un omicidio, quello di Giuseppe Letizia, deliberatamente voluto e compiuto a sangue freddo, senza fermarsi nemmeno un secondo a considerare l’età del piccolo. Tale atroce atto non fu, purtroppo, un’eccezione nel panorama mafioso.


07 Ottobre 1986

Claudio Domino vive a Palermo e ha undici anni.

È un martedì sera e Claudio sta giocando in strada, davanti alla cartolibreria gestita dalla madre, nel quartiere San Lorenzo.

Il piccolo è spensierato, tranquillo, come può essere un bambino della sua età in una sera come quella. D’un tratto solo una voce, maschile: “Claudio!

Il tempo di avvicinarsi a quell’uomo in sella a una moto che ha il volto coperto da un casco, ma che sa il suo nome e quindi sarà sicuramente un suo conoscente.
Poi, davanti ai suoi occhi, soltanto un accecante lampo e un sottile filamento di fumo, dopodiché l’oscurità. La pallottola lo raggiunge proprio in mezzo agli occhi. Claudio muore all’istante, vittima di quel barbaro atto a sangue freddo che resterà avvolto nel mistero, sia per ciò che riguarda l’esecutore materiale del gesto, sia soprattutto per il possibile movente.

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Claudio era figlio di un gestore del servizio di pulizia dell’aula-bunker, luogo in cui si stava svolgendo in quel periodo il “Maxi processo” alla Mafia, e l’ipotesi più accreditata resta che il piccolo possa avere assistito al confezionamento di dosi di eroina all’interno di un magazzino. Un giovane testimone scomodo e pericoloso quindi, la cui uccisione ha causato la presa di distanza anche da parte di alcuni boss.

Il mistero comunque permane e aleggia nell’orrore della morte di un bambino di soli undici anni. Già abbastanza, secondo la logica criminale, per essere puniti nella maniera peggiore.

20 Marzo 1991
Una tra le più giovani vittime delle organizzazioni criminali fu Angelica Pirtoli, uccisa assieme alla madre in maniera brutale. Angelica non aveva nemmeno due anni e ancora non sapeva camminare.

Il pianto scaturito in seguito alla morte della madre e la tenerissima età della piccola non fermarono i killer della Sacra Corona Unita, che si resero responsabili di uno dei più feroci infanticidi commessi in Italia.

La piccola Angelica Pirtoli


11 Gennaio 1996
Giuseppe adora i cavalli e si sta allenando al maneggio di Altofonte (PA), come quasi ogni giorno.

Quando vede arrivare quegli uomini, vestiti da agenti della DIA, intuisce siano lì per portarlo dal padre e se ne rallegra: Papà mio, amore mio!
Ripete il ragazzino, impaziente di rivedere il papà detenuto e accogliendo quei poliziotti quasi fossero degli angeli capaci di regalargli quella bella sorpresa.
In realtà quegli uomini non sono poliziotti e men che meno angeli.

Quello di Giuseppe Di Matteo rimane uno dei delitti più conosciuti tra quelli commessi nel panorama mafioso.

Giuseppe è figlio di Santino Di Matteo, mafioso pentito che per la prima volta rivela i dettagli e i meccanismi con cui fu attuata la Strage di Capaci. Tale pentimento causa la rappresaglia degli uomini di Cosa Nostra, che sotto il comando di Giovanni Brusca, esecutore materiale dell’uccisione del giudice Falcone, rapiscono il piccolo il 23 novembre 1993.

Quando viene rapito Giuseppe non ha ancora 13 anni. Per più di due anni viene tenuto prigioniero dagli uomini della Mafia, i quali nel frattempo tentano invano di convincere il padre, attraverso lettere minatorie, a ritrattare le proprie dichiarazioni.

Santino Di Matteo, seppur inizialmente sembri crollare psicologicamente, non cede ai ricatti, cercando anzi personalmente il figlio.

La prigionia del ragazzo durerà esattamente 779 giorni, durante i quali sarà spostato attraverso vari nascondigli nelle campagne siciliane. La sua morte ha luogo l’11 gennaio 1996 per mano dello stesso Brusca, che strangola il piccolo e ne scioglie il cadavere nell’acido.

Un orribile epilogo per una così giovane vittima, che ribadisce ancora una volta come la logica mafiosa non voglia concedere il diritto alla vita nemmeno a innocenti ragazzini.

27 Agosto 1996
Il corpo di Salvatore Botta è riverso a terra in un vialetto del cimitero di Catania, un luogo sacro appena profanato dai proiettili della Mafia. È a poca distanza da quello di Santa, la cugina che aveva accompagnato lì per omaggiare la tomba del marito.

Santa, oltre ad essere vedova di mafia a soli 22 anni, è anche la figlia di Antonino Puglisi, boss catanese detenuto e invischiato nelle faide criminali. La vendetta trasversale delle cosche rivali colpisce duramente in un cimitero e non si ferma nemmeno davanti ad una giovane ragazza e al suo cuginetto quattordicenne, colpevole di essere testimone involontario di un delitto infame.

Il corpo del giovane Salvatore Botta

A questi singoli, orrendi omicidi, compiuti a sangue freddo, guardando negli occhi le piccole vittime, possiamo anche aggiungere tutti quelli avvenuti nel corso delle varie stragi mafiose. A Portella della Ginestra, dove ebbe luogo la prima strage dell’Italia Repubblicana (01/05/1947), morirono ben quattro ragazzini al di sotto dei 18 anni, mentre in Via dei Georgofili, a Firenze (27/05/1993), pagarono con la vita una bambina di 9 anni e la sua sorellina nata soltanto 50 giorni prima.

Destino analogo incontrarono Giuseppe e Salvatore Asta, gemellini di 6 anni che morirono assieme alla madre Barbara a Pizzolungo (TP), il 2 Aprile 1985.

Lungo la statale che conduce a Trapani l’utilitaria su cui viaggiavano i tre venne improvvisamente a trovarsi tra un’autobomba parcheggiata a bordo strada e l’auto del sostituto procuratore Carlo Palermo, anch’egli diretto a Trapani e obiettivo di quell’attentato. Mentre il magistrato e gli agenti di scorta si salvarono, l’esplosione per i due gemelli e la loro madre fu talmente letale che ne dilaniò i corpi, scagliandone uno a oltre duecento metri di distanza e trasformandolo in una macchia di sangue sul muro di una casa.

Doveroso poi ricordare le morti di Emanuela Sansone, diciassettenne palermitana uccisa dai sicari nel 1896 e considerata la prima donna vittima della Mafia, e Graziella Campagna, coetanea della Sansone, punita da Cosa Nostra nel 1985 per aver casualmente scoperto l’identità di un boss latitante.

Simonetta Lamberti, undicenne napoletana, fu uccisa nel 1982 dai killer della Camorra durante un agguato teso al padre magistrato, stessa sorte che il 17 marzo 2014 toccò al piccolo Domenico Petruzzelli, di soli 3 anni, ucciso assieme al padre pregiudicato e alla compagna di quest’ultimo.
L’undicenne Domenico Gabriele (2009) e la quattordicenne Annalisa Durante (2004) rimasero invece vittime di proiettili vaganti nel corso di sparatorie avvenute a Crotone e Napoli.

Tutte queste morti testimoniano come l’atroce mentalità mafiosa dei sicari non risparmi proprio nessuno, nemmeno piccole anime innocenti come l’opinione generale vorrebbe invece lasciare intendere.

D’altronde fu proprio il capo dei capi Totò Riina nel corso della preparazione di una strage (poi mai avvenuta) che, per giustificare eventuali morti di bambini nel corso dell’attentato in questione, affermò come “i bambini muoiono anche a Sarajevo, perché ci dobbiamo preoccupare proprio noi? 

Di: Domenico Carbone

Fonti:
La mafia uccide solo d’estate – La serie 
La vita rubata
Pizzolungo, memorie di una strage
“Sicilian Ghost Story”

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