Vicende di ordinaria criminalità nel profondo nord Italia, i cui spietatissimi autori parlavano in dialetto milanese e veneto: tutto quello che c’è da sapere sulla delinquenza “formato padano”.
IL SOLISTA DEL MITRA
La prima volta gli bastò battere un pugno sul bancone per far sì che l’impiegato postale consegnasse i soldi. Questi aveva intravisto la pistola che teneva al di sotto della cinta e, credendo fosse una rapina, non esitò a svuotare la cassa. Quel gesto di stizza era invece dovuto semplicemente alla fretta di un ragazzo andato in posta soltanto per pagare una bolletta, ma la facilità con cui riuscì ad ottenere i soldi lo convinse ad intraprendere la strada del crimine.
Era così che Luciano Lutring raccontava le origini della sua carriera malavitosa.
Nato a Milano nel 1937, verrà soprannominato “Il solista del mitra“, a causa di quella strana ma ingegnosa trovata di nascondere l’arma in una custodia di violino.
Lutring assunse presto i tratti tipici del “bandito gentiluomo“, capace di compiere le rapine con estrema calma (sempre esprimendosi in uno stretto dialetto milanese) e di condurre una vita all’insegna delle belle donne e delle auto di lusso. Tra le azioni più celebri della sua banda si registra il tentato furto di gioielli di Bulgari facenti parte del concorso di Miss Italia, avvenuto il 4 settembre 1964 a Salsomaggiore Terme. Il colpo non andò in porto e così i banditi ripiegarono su una pellicceria delle vicinanze, riuscendo a ricavarne un buon bottino. Successivamente la banda Lutring spostò le sue azioni criminali in Francia, stabilendo la propria “base operativa” in un bar di Marsiglia. Non gradito al clan dei Marsigliesi, il Solista del Mitra fu costretto a spostarsi a Parigi, dove il primo giorno di settembre 1965 verrà arrestato in seguito a un conflitto a fuoco. Tra il 1958 e il 1965 Luciano Lutring commise centinaia di rapine tra Italia e Francia, ottenendo un bottino stimato attorno ai trenta milardi di lire dell’epoca.
Condannato a vent’anni di lavori forzati nelle carceri francesi, scontò dodici anni durante i quali portò avanti una fitta corrispondenza di lettere con l’allora Presidente della Camera Pertini. Graziato sia dal presidente francese Pompidou, che in seguito da quello italiano Giovanni Leone, dopo essere diventato padre trascorse gli ultimi decenni della sua vita in veste di scrittore e pittore, raggiungendo buoni risultati ed evidenziando quelle sfumature che fecero di lui uno dei criminali più popolari e “romantici” d’Italia.
IL BEL RENÉ E LA BANDA DELLA COMASINA
11 Agosto 1976
Era un pomeriggio assolato e i tre sedevano ai tavolini di un bar di Piazza Cavour, in pieno centro a Como. Sul quotidiano locale appariva l’intervista al questore cittadino, il quale affermava come fosse praticamente impossibile per qualsiasi rapinatore riuscire a fuggire in seguito ad un colpo effettuato in città. Le grandi vie di scorrimento al di fuori del centro erano infatti solamente due e sarebbe bastato bloccarle per rendere la vita difficile a chiunque avesse avuto cattive intenzioni.
Quelle dichiarazioni suonavano come una sorta di sfida per i tre, che decisero di smentirle con i fatti quello stesso pomeriggio. Di lì a poco erano già dentro la filiale del Credito Italiano, situata lì di fronte.
Dopo aver rassicurato i presenti, i banditi attesero per un paio d’ore l’arrivo del direttore e del capo cassiere, gli unici impiegati in possesso delle chiavi del caveau. Una volta giunti questi, rinchiusero clienti e personale all’interno dello stesso caveau e fuggirono con quasi cento milioni a testa.
Raggiunta l’autostrada, il capo del trio contattò da un autogrill la questura di Como, spiegando la situazione e invitando gli agenti a liberare i malcapitati ancora reclusi all’interno della banca. L’indomani i giornali avrebbero, ovviamente, riportato l’accaduto, sottolineando come la polizia cittadina, una volta raggiunta la banca, avrebbe atteso quasi due ore prima di fare irruzione, credendo che i rapinatori fossero ancora presenti all’interno.
Nato e vissuto a Milano, già a otto anni Vallanzasca venne condotto nel carcere minorile del capoluogo lombardo, reo di aver cercato di liberare una tigre dalla gabbia di un circo vicino casa sua. Ben presto il giovane entrò in contatto con la Ligéra, la malavita milanese, e a soli sedici anni era già in possesso di ben tre pistole. In breve tempo riuscirà a creare un proprio gruppo criminale, rinominato “La banda della Comasina“, operante nella zona settentrionale della città.
Seguirà però un secondo arresto, avvenuto nel 1972, che lo costrinse a trascorrere quattro anni in galera, durante i quali si renderà protagonista di numerose rivolte e disordini all’interno dell’ambiente carcerario. Riuscì poi ad evadere dall’ospedale in cui venne ricoverato dopo aver volontariamente contratto l’epatite, ingerendo uova marce e iniettandosi urina nelle vene.
Tornato in libertà, la sua banda, in aperto contrasto con quella di Francis Turatello, si fece strada nel mondo criminale attraverso rapine e sequestri, il più importante dei quali resta quello di Emanuela Trapani, figlia dell’allora presidente della Camera di Commercio milanese. La giovane, che verrà liberata dopo quarantuno giorni di prigionia (24 gennaio 1977) in seguito al pagamento di un ingente riscatto, racconterà come, durante il sequestro, Vallanzasca si rivelò molto premuroso nei suoi confronti, rompendo la monotonia e accompagnandola addirittura a fare shopping. Il giovane, infatti, oltre al carattere spavaldo, mostrava un forte interesse nei confronti del gentil sesso, su cui esercitava un forte fascino.
Solamente due settimane dopo la liberazione della ragazza la banda si renderà responsabile della morte di due agenti di polizia, colpevoli di aver fermato la loro auto ad un posto di blocco nei pressi del casello autostradale di Dalmine (BG). Vallanzasca, ferito e braccato in seguito a tale atto, verrà nuovamente catturato dopo pochi giorni dai carabinieri.
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15 febbraio 1977: l’arresto di Renato Vallanzasca a Roma |
Nuovamente in carcere, il Bel René si sposò con una sua ammiratrice (l’ex nemico Turatello sarà suo testimone di nozze) e negli anni seguenti sarà ancora protagonista di rivolte carcerarie e tentate evasioni. Riuscirà ad evadere nel 1987, attraverso un oblò del traghetto che doveva trasferirlo fino al carcere di Nuoro, ma sarà nuovamente catturato dopo nemmeno un mese.
Dal 2005 in poi ottenne permessi e ruoli professionali che scaturirono le polemiche dell’opinione pubblica. Il tentato furto di biancheria intima avvenuto nel 2014 presso un supermercato pregiudica fortemente ulteriori permessi, aggiungendo altri dieci mesi di condanna ai suoi quattro ergastoli e 295 anni di reclusione.
FACCIA D’ANGELO E LA MALA DEL BRENTA
1 Dicembre 1983
I sei uomini mascherati e armati entrarono in azione rapidamente. In breve immobilizzarono una decina di persone lì presenti e in pochi minuti svanirono nel nulla, portando via con loro ben 170 chili d’oro, equivalenti all’incirca a tre miliardi delle lire di allora. Quell’oro si trovava in un magazzino dell’aeroporto Marco Polo di Venezia, ed era destinato a essere imbarcato su un volo Lufthansa.
Quello non fu l’unico colpo clamoroso commesso da Felice Maniero e dai suoi uomini. La mattina del 16 luglio 1982, per esempio, in cinque irruppero nella hall dell’Hotel des Bains sito nel lido della città lagunare, immobilizzarono personale e clienti e fuggirono poi su un motoscafo, non prima di aver sottratto due miliardi di lire. Bottino che salì a due miliardi e mezzo la notte del 30 aprile 1984, quando il colpo fu attuato nientemeno che al casinò della città. Il modus operandi fu praticamente lo stesso e i protagonisti svanirono nel buio della notte nuovamente attraverso il mare.
Il gruppo criminale, a cui venne imputata l’aggravante mafiosa, ottenne fin dalla fine dagli anni ’70 il monopolio del traffico di stupefacenti e di armi con i paesi balcanici. Rinominata “Mala del Brenta“, la banda risultò inflessibile verso chiunque si rifiutasse di collaborare. A tal proposito, è necessario ricordare il duplice omicidio di cambisti del casinò di Venezia (ovvero coloro che prestavano denaro ai giocatori), i quali si rifiutavano di cedere parte dei loro ricavi illegali al gruppo.
Un vero e proprio clan mafioso, i cui componenti parlavano in dialetto veneto e non si facevano scrupoli ad utilizzare modalità del tutto similari a quelle delle cosche meridionali. Per esempio, per l’assalto al treno Venezia-Milano, compiuto il 13 dicembre 1990 in piena campagna padovana, i criminali utilizzarono l’esplosivo per sventrare una carrozza che avrebbe dovuto contenere diversi miliardi. La tremenda esplosione coinvolse un altro treno sopraggiunto in quei momenti, causando la morte istantanea di Cristina Pavesi, una ragazza di soli 22 anni, e il ferimento di diversi passeggeri.
I richiami alle modalità mafiose meridionali riemersero anche nel furto della reliquia del mento di Sant’Antonio (patrono di Padova) avvenuto il 10 ottobre 1991, attraverso il quale Maniero volle ricattare lo Stato, al fine di ottenere la liberazione del cugino e la revoca delle misure di sorveglianza a suo carico. Il 23 gennaio 1992, invece, il clan irruppe nella Galleria Estense del Museo Civico di Modena, rubando quattro preziose tele dal valore inestimabile.
Maniero era senz’altro il capo indiscusso della malavita veneta. Anch’egli, come lo stesso Vallanzasca, si rivela un personaggio suggestivo e popolare. Sempre sorridente (venne fin da subito rinominato “Faccia d’angelo“), amante della bella vita (significativo il fatto che nell’agosto 1993 venga arrestato a bordo del suo yacht a largo di Capri) e sempre circondato da belle donne, fin dalla prima adolescenza percorse la strada del crimine dedicandosi a furti di bestiame assieme allo zio e successivamente alle rapine vere e proprie. Nel corso degli anni ’70 entrò in contatto con mafiosi e camorristi al confino in Veneto e ciò gli avrebbe garantito un solido appoggio per le future attività criminali.
Dopo un’evasione avvenuta nel giugno 1994, verrà arrestato nuovamente a novembre e dopo pochi mesi diventerà collaboratore di giustizia. Ciò gli garantirà l’ammissione al programma testimoni rendendogli, dal 2010, una nuova identità e la libertà definitiva.
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Il boss Felice Maniero |
LA TRUCE “GIUSTIZIA SOCIALE” DELLA BANDA CAVALLERO
25 Settembre 1967
La Fiat 1100 D sfreccia per la città, causando terrore tra gli automobilisti e i passanti. La folle fuga nelle vie della metropoli dura circa mezz’ora. Le volanti della polizia, a sirene spiegate, macinano chilometri nel tentativo di raggiungere quell’auto. Il piombo dei folli rapinatori lascia sull’asfalto tre morti innocenti (una quarta persona morirà due giorni dopo a causa di un attacco di cuore), oltre ad una ventina di feriti.
La banda Cavallero, in seguito ad una rapina al Banco di Napoli in Largo Zandonai, seminò così morte e dolore tra la cittadinanza milanese. Nei giorni seguenti i responsabili verranno catturati, dopo aver commesso 18 rapine, sempre ad agenzie bancarie, tra Milano e Torino.
I componenti del gruppo, infatti, provenivano dal capoluogo piemontese, dove erano nati e cresciuti, e attraverso le loro azioni volevano rivendicare, a loro dire, una forma di giustizia sociale attinente alle idee leniniste o addirittura anarchiche. Non a caso Pietro Cavallero, il leader del gruppo, e Sante Notarnicola erano ex attivisti del Partito Comunista, mentre Adriano Rovoletto, l’autista della banda, era un ex partigiano. Del gruppo facevano parte anche Danilo Crepaldi, un ex contrabbandiere, e Donato Lopez, torinese figlio di un operaio meridionale e all’epoca dei fatti ancora minorenne.
La Banda Cavallero, che aveva già ucciso un uomo durante una rapina a Ciriè (TO) il 17 gennaio 1967, in cinque anni riuscì ad accumulare un bottino di circa 98 milioni di lire, agevolati dalla tecnica della “tripletta“, ovvero quella di compiere tre rapine nello stesso giorno per sviare le forze dell’ordine e ottenere campo libero.
Le loro azioni furono ben documentate dal film “Banditi a Milano“, del regista Carlo Lizzani, pellicola incentrata soprattutto sulla rapina al Banco di Napoli e quella tragica fuga che resterà tristemente nitida nella memoria dei milanesi.
FILMOGRAFIA CONSIGLIATA
“Banditi a Milano” – Regia di Carlo Lizzani, 1968
“Svegliati e uccidi” – Regia di Carlo Lizzani, 1966
“Vallanzasca – Gli angeli del male” – Regia di Michele Placido, 2010
“Milano Calibro Nove” – Puntata di “Blu Notte-Misteri Italiani”, di Carlo Lucarelli, 2004
“La Mala del Brenta” – Puntata di “Lucarelli racconta”, di Carlo Lucarelli, 2010
Di: Domenico Carbone