Nell’impianto chimico delle industrie ICMESA S.p.a (Industrie Chimiche Meda Società) – acquistato nel 1963 dal colosso farmaceutico Hoffman Roche – lavorano circa 170 dipendenti nel 1976, in gran parte residenti nei comuni limitrofi a Meda (circa 15 km da Milano). La produzione di 2,4,5-triclorofenolo – un intermedio dell’industria cosmetica e farmaceutica utilizzato come battericida e fungicida – procede senza intoppi ormai dal 1969, dando risultati più che soddisfacenti all’azienda madre.
Il 10 luglio 1976 la comune quotidianità di un normale e caldissimo giorno d’estate qualsiasi sarà scossa profondamente, precisamente alle 12:28 di quel maledetto sabato, la vita di migliaia di persone residenti nella Brianza cambierà per sempre. Da tempo si conoscevano i rischi, sia per la salute dei lavoratori sia ambientali, legati alla lavorazione del triclorofenolo e dei suoi derivati, e l’ICMESA, che da anni utilizzava un metodo di produzione non convenzionale – ovvero non attinente al brevetto – rendeva il rischio ancora più elevato. In particolare, erano le impurità prodotte da un eventuale aumento della normale temperatura di lavorazione (circa 150-160°) del triclorofenolo a destare preoccupazioni: il processo termico, infatti, dà vita alla diossina, un pericoloso composto chimico altamente cancerogeno per l’uomo e iperdannoso per l’ambiente.
Quel sabato mattina successe proprio quello che non ci si augurava succedesse. Il sistema di controllo del reattore principale, adibito al mantenimento della temperatura ideale per il triclorofenolo, andò in avaria e 10 minuti dopo, alle 12:37, dall’impianto di Meda fuoriuscì una nube tossica composta da diossina. Complice il vento, che in quella calda mattinata soffiava leggermente, la nube iniziò la sua espansione anche nei territori limitrofi allo stabilimento, arrivando alle porte del milanese, contaminando il terreno, le fonti idriche, gli animali, gli abitanti.
L’odore acre, o come la chiamavano i residenti intorno allo stabilimento “la puzza dell’ICMESA” era da anni una costante e, anche se quel giorno era più intenso, non fece allarmare la popolazione. L’allarme alle autorità fu lanciato dai funzionari aziendali solo il giorno seguente, ma senza specificare la vastità e la pericolosità del fatto, nonostante i dirigenti della Hoffman-Roche – dopo attenti e immediati prelievi in loco – erano già a conoscenza della presenza di diossina nel territorio brianzolo. La popolazione e le amministrazioni saranno tenute all’oscuro ancora per molti giorni prima che un allarme ufficiale sarà lanciato e intanto la salubrità degli individui continuava a essere messa a repentaglio. Anche la comparsa di numerose macchie rosse sulla pelle delle persone (acne clorica) non fermò la distribuzione di frutta e verdura proveniente dai terreni agricoli circostanti che continuò senza alcuna limitazione. I sindaci, infatti, di fronte alla mancanza di informazioni da parte dell’azienda, decisero di aspettare notizie più certe per agire, per non creare panico tra la popolazione, che, in ogni caso iniziò comunque a insospettirsi: le prime notizie su una possibile correlazione tra bruciore agli occhi e alla pelle e un eventuale disastro circolarono proprio grazie agli operai dell’ICMESA, alcuni dei quali erano stati presenti alla fuoriuscita tossica e che fortunatamente erano riusciti ad attivare l’impianto di raffreddamento per contenere i danni. Le preoccupazioni della popolazione stimolarono la stampa che, a una settimana dal disastro, finalmente iniziò ad occuparsi del caso, testimoniando con interviste e fotografie le tremende conseguenze in atto.
Il 20 luglio arrivò dalla ICMESA la pubblica conferma della presenza di diossina nella nube e autorità locali e Regione Lombardia si trovarono di fronte ad un disastro senza precedenti, tentando di salvare il salvabile, anche se la mancanza di conoscenze mediche precise riguardo gli effetti causati da un avvelenamento da diossina non facilitò il lavoro. Le amministrazioni agirono congiuntamente attuando prima un controllo sanitario radicale sulla popolazione (soprattutto per le donne incinte), poi su animali e vegetazione (causa l’alta moria), vietandone il consumo. La zona contaminata fu delineata e distribuiti volantini informativi e manifesti in tutto il territorio coinvolto.
Le misure prese non contribuirono comunque a migliorare la situazione e, sotto consiglio dell’ICMESA – che intanto si era proposta di contribuire alla decontaminazione – sabato 24 luglio, l’Assessorato Regionale alla Sanità prese l’amara decisione di evacuare la zona. L’area fu suddivisa in tre zone in base al grado di contaminazione: quella di maggiore pericolosità, chiamata Zona A, sita tra i comuni di Meda e Seveso, si estendeva per circa 108 ettari.
L’indomani arrivarono anche le forze militari, richieste proprio dalla Regione per far fronte allo stato di estrema emergenza: l’area fu recintata con filo spinato, presidiata dall’Esercito che intanto coadiuvava l’evacuazione dei civili. Solo nella Zona A, furono spostate circa 212 famiglie (736 persone) e chiusi numerosi esercizi commerciali e industriali, tra cui l’ICMESA, contribuendo a ferire il territorio anche dal punto di vista economico.
Nonostante la prontezza nella bonifica di terreni e di abitazioni, molte di quest’ultime furono invece dichiarate inagibili e abbattute definitivamente: le rispettive famiglie – alcune delle quali protestarono, rioccupando abusivamente la zona interessata – non poterono mai più farvi ritorno, causa l’alto rischio per la salute.
Anche se le maggiori opere di bonifica erano state ormai completate nel 1977, le ripercussioni sul territorio si sono estese fino ai giorni nostri: a 40 anni da quel 10 luglio 1976 la salute collettiva ancora ne risente. Anche se alcuni studi lo smentiscono, altri casi-studio correlano il disastro di Seveso ad un aumento di alterazioni ormonali neonatali e tumori, quali mielomi e leucemie.
Quel che è certo è che i comuni dell’area hanno subito le conseguenze della scellerata condotta di industriali, totalmente disinteressati al benessere pubblico, affiancate dall’incapacità dell’amministrazione locale di agire e di gestire un fenomeno estremo. L’area interessata si porta ancora dietro le disastrose conseguenze di un evento che non ha ancora trovato tutti i suoi colpevoli e, anche se dopo Seveso passi avanti sono stati fatti sulla materia ambientale – anche in campo legislativo (sia europeo, sia italiano) – forse non è ancora sufficiente, come ci testimoniano gli odierni disastri ambientali.
Di: Simona Amadori
Fonti:
Laura Centemeri, Ritorno a Seveso: il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2006
Benito Leoci, Giorgio Nebbia, Luigi Notarnicola, Industria e ambiente: il caso Seveso, in La chimica in Italia. 150 anni fortune e sfortune – Le industrie chimiche in Italia – Casi studio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2011
(A cura di) Miriam Ramonpedetta, Alessandra Repossi, Seveso vent’anni dopo – Dall’incidente al Bosco delle Querce, in “i Dossier”, n°32, Fondazione Lombardia per l’Ambiente, Milano, 1998
Fabrizio Ravelli, Seveso, 40 anni fa il disastro Icmesa: “La pelle bruciava, la diossina ci ha stravolto la vita”, in “La Repubblica”, 10/07/2016, reperibile all’URL http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/07/10/news/disastro_seveso-143783879/, (consultato il 07/11/2017)