Gli anni del dopoguerra, nelle coscienze di tutti impresse rimangono le macerie, i volti smunti e quella luce negli occhi ormai dissipata dalla paura e dal bisogno. Il popolo italiano giunge al crepuscolo di anni di profonde sofferenze e disillusione, trascinando il manto di quel fantoccio impero italiano, logoro e lercio. C’era da ricostruire, c’era da formare, c’era da fare!
In questo incanto di polveri e ceneri sguazzavano allampanate creature figli di un popolo vinto e nonostante tutto vivo e pulsante. Erano gli anni tra il 1945 e il 1952, allorquando un’associazione femminile strettamente collegata al partito comunista, avvalorò la tesi per la quale ci fosse il bisogno di porgere una mano a quelle regioni dai tanti figli e le scarne possibilità, traghettando il prodotto delle loro viscere verso le famiglie delle regioni del nord, laddove avrebbero trovato un, seppur effimero, ristoro.
Bimbi in prestito e famiglie umili pronte a stendere una mano a quelle creature collaterali prepotentemente venute al mondo bramanti l’anelito di quella vita calpestata dalle fulgori della guerra. Vennero a costituirsi quelli che furono definiti
“treni della felicità”, ma che di felice non avevano altro che l’illusione di un domani migliore. Un’unità d’Italia strettamente concessa da uno stato le cui priorità ben presto sarebbero affiorate agli occhi di tutti calpestando quel miracolo italiano fatto di sudore della fronte e oblio.
In un contesto nel quale gli eco-mostri di cemento vuoti di sostanza e case a buon mercato facilmente deperibili, laddove l’interesse fallace prendeva il sopravvento sui bisogni, costruendo macerie di una società contorta e incapace a leggere gli effettivi bisogni del popolo le cui braccia a buon mercato risultavano asservite all’algida del più forte, s’inserivano i bambini, quegli stessi che popolavano le città deturpate figlie di genitori accartocciati dalla fame. La soluzione parve semplice alla nascente UDI – unione donne italiane – la quale volgendo uno sguardo a quella fame che avrebbe partorito delinquenza per riscatto sociale, promosse una soluzione dubbia seppur efficace.
Nel giro di pochi mesi da Napoli come da Roma, da Cassino come da alcune città della Calabria e della Sardegna, presero a migrare i bambini in prestito alle famiglie dell’Emilia Romagna e alla sua florida campagna. Molti diranno d’essere stati abbandonati, molti non torneranno nelle loro città e di essi rimarrà il dubbio apparente se questa scelta politica abbia in un qualche modo migliorato la morfologia di uno stato claudicante, immolato al tavolo dei vincenti come il traditore dal cuore buono che recalcitra per sopravvivere, che s’immola per sfuggire all’indegna disfatta.
Crespellano, cittadina bolognese a tutt’oggi confluita nel comune limitrofo di Valsamoggia, in quell’oggi di se e di ma, ospitava un’umile famiglia, la prima ad adottare temporaneamente un bambino di nome Pasquale, la cui fame lo spingeva a nascondere i maccheroni avanzanti nell’antro delle proprie tasche bucate. Rinato com’era nel ventre di quel treno, ridesto negli umili agi di una vita insperata lui come gli altri 70 mila bambini del sud dell’Italia dagli occhi svampiti dal tempo, accolti e spesso dimenticati. I treni della felicità che attraversavano l’Italia alla cui fermata vi era appunto la povera e allegra felicità di chi accoglie con affetto la miseria degli altri offrendo quel poco più, quel tanto che basta a non patire la fame.

In un’era politica come la nostra laddove si accresce il bisogno di innalzare muri, s’inserisce l’immagine di questi bambini dalle vuote speranze che atterrano le brevi impronte sulla soglia di una porta inesplorata ben accolti dalle braccia di chi appartiene ad un mondo diverso pur se coperto dalla stessa celeste cupola.
Imparare dai vecchi passeggiando su impronte rinsecchite pur se quella politica rispondeva ad un alto lignaggio capace a modo proprio, seppur errando, di trarre soluzioni sfruttando quel gran cuore che apparteneva ad un’Italia smarrita e disillusa eppure dai confini tanto larghi da spalancare le braccia della propria miseria per accogliere e aiutare, permetterebbe alla classe dirigente di oggi di intraprendere un cammino grazie al quale eludere quegli errori che negano il diritto a vivere e a sperare, dissolvendo, di contro, una fiducia debita allo stato sociale. In caso contrario continueremo ad essere figli di un orizzonte vacuo parafrasi di oniriche ambizioni.
Di: Anna Di Fresco
Fonti
Giovanni Rinaldi – I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie – ediesse edizioni –