In uno dei più importanti libri dedicati all’emigrazione, Sull’Oceano di Edmondo De Amicis, del 1889, un emigrante afferma in modo limpido le cause che lo hanno spinto a lasciare la sua terra natia:
“Mi emigro per magnar”.
È così che inizia la storia di molti emigranti italiani in Argentina, paese latino-americano che più è stato coinvolto in questo spostamento di massa di nostri connazionali, in un periodo che va da metà ‘800 a metà del ‘900.
Un paese “scomodo”
Chi partiva lasciava gli affetti della propria terra, la stessa terra incapace di sfamare una sempre più crescente popolazione, che all’epoca dell’Unità d’Italia, contava 22.176.477 individui. La maggior parte di questi erano popolani, muratori, operai, artigiani, ma soprattutto contadini di quell’Italia estremamente rurale che vedrà un’espansione industriale solo qualche decennio più tardi.
In una situazione di mancanza di lavoro, e, in particolare, di prospettive per il proprio futuro, non era possibile far altro che emigrare. Tra le destinazioni preferite si trova l’Oltreoceano, luogo di narrazione di numerose storie di italiani, integrati poi nelle nuove società di approdo. Gli italiani che arrivarono in Argentina provenivano da tutte le regioni d’Italia, soprattutto dal Nord nell’Ottocento (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) e dal Sud nel Novecento (Calabria, Sicilia, Campania) e vi giunsero grazie anche a incentivi legislativi sia italiani, sia argentini.

Il 30 dicembre 1888 il Governo Crispi emana una nuova legge in cui si sancisce nell’Art. 1: «L’emigrazione è libera, salvo gli obblighi imposti ai cittadini dalle leggi». Di fatto si approva l’emigrazione, ma viene sottoposta a controllo da una speciale “patente” obbligatoria per chi volesse espatriare, al “modico” prezzo di una cauzione di lire 3,000 a 5,000 di rendita in titoli di Stato. Lo stesso successe in Argentina: nel 1853 la Costituzione della Confederazione Argentina sancirà nell’articolo 25:
«Il governo federale incoraggerà l’immigrazione europea; non potrà restringere, limitare o gravare con alcuna imposta l’ingresso nel territorio argentino degli stranieri che abbiano per oggetto coltivare la terra, migliorare le industrie, introdurre e insegnare le scienze e le arti.»
Inoltre, nel 1876 venne approvata e promulgata una legge che istituiva il Departamento General de Inmigración che aveva l’obbligo di registrare i nuovi migranti nelle liste di sbarco, per tenerne traccia. Queste furono solo alcuni degli spazi legislativi che permisero una massiccia emigrazione europea ed italiana.
La comunità italiana in Argentina
Gli italiani in Argentina, col passare dei decenni, aumentarono in modo esponenziale e il loro insediamento preferito fu la città, soprattutto la capitale, Buenos Aires. Qui era possibile sperimentare quello che in Italia mancava: l’ascesa sociale. In una metropoli in forte espansione gli italiani non tardarono ad appropriarsi di ampi spazi della città rioplatense, diventando una delle componenti immigratorie maggioritarie.

Molti quartieri si colorarono della vivacità italiana, come il quartiere della Boca, dove numerosi immigrati provenienti per lo più dalla regione italiana della Liguria si stanziarono e iniziarono un importante processo di trasformazione e di integrazione tutt’oggi visibile. In questo quartiere gli italiani furono anche protagonisti del singolare episodio di proclamazione di una Repubblica, nel 1882, a seguito di uno sciopero dei lavori del porto. In mancanza di una risposta concreta da parte delle autorità pubbliche argentine, i genovesi fondarono un loro stato, comunicandolo anche al Re italiano, Umberto I di Savoia che poco si interessò alla questione. La rivolta fu ben presto sedata dall’esercito, ma l’epopea dei rivoltosi è ancora viva nell’immaginario locale. Anche il calcio divenne manifestazione di unione della storia italiana a Buenos Aires: sempre nel quartiere de La Boca, furono proprio alcuni adolescenti italo-argentini di origine genovese a fondare, nel 1905, il Club Atlético Boca Juniors, squadra calcistica tutt’oggi attiva.

Il cocoliche
Quelle appena descritte non furono le uniche forme di integrazione italiana nella capitale e nella nazione. I migranti non portarono nella loro nuova casa solo masserizie, ma una cultura e un linguaggio che è possibile identificare con il proprio dialetto d’origine. E proprio questa connotazione insieme alla robusta presenza italiana in Argentina plasmò la lingua locale. Ci fu una vera e propria contaminazione tra il castigliano rioplatense e i numerosi dialetti italiani, arrivando a formare una lingua ibrida, il cocoliche, una vera mescolanza semantica e lessicale che divenne peculiarità linguistica degli immigrati italiani in Argentina. E se da prima questa nuova lingua era conosciuta ai singoli parlanti, in quanto trasmessa oralmente, in seguito acquisì una notevole importanza anche nella forma scritta. Tutto ebbe inizio con Antonio Cuccoliccio, un giovane emigrato calabrese, lavoratore presso una compagnia teatrale a Buenos Aires; parlava malissimo il castigliano e il suo modo di esprimersi era continuamente contaminato dalla sua cadenza dialettale, ma Cuccoliccio desiderava a tutti i costi dimostrare di essere argentino. Questa sua necessità era semplice espressione di un desiderio di integrazione sociale e culturale, ma, la sua ostinazione lo connotava in modo alquanto comico. Un attore, Celestino Petray, della stessa compagnia teatrale, si incuriosì per questo particolare modo di esprimersi del giovane calabrese e strutturò attorno a questa figura un nuovo personaggio che aveva le movenze fisiche e l’oralità di Cuccoliccio. Fu così che nacque il personaggio di nome Cocoliche che divenne celebre in molte opere teatrali ispanoamericane, e non solo. La lingua e gli atteggiamenti del personaggio entrarono con decisione prima nel lessico degli argentini e in seguito anche nella letteratura, consolidando l’idioma cocoliche nella quotidianità e nel futuro dell’Argentina. Numerosi furono anche i giornali di fondazione italiana a utilizzare il cocoliche, contribuendo ad una consolidata diffusione, tanto che nel 1927, la Reale Accademia Spagnola, assunse il termine anche nel Diccionario de la Real Academia Española, dove venne definito «gergo ibrido che parlano certi migranti italiani mischiando la propria lingua con quella castigliana.»

Il cocoliche oggi
Questo codice ibrido, oggi, non esiste quasi più: la sua produzione si è arrestata con l’ultima ondata migratoria italiana in Argentina, avvenuta nella metà del Novecento. Di fatto oggi è possibile ascoltare il cocoliche esclusivamente attraverso qualche testimonianza orale di anziani immigrati. Tuttavia è doveroso sottolineare che il cocoliche ha rappresentato molto di più di un fenomeno linguistico-sintattico-lessicale passeggero; infatti, a livello storico, la produzione di questo nuovo idioma ha rappresentato un evento inaspettato: l’emigrazione verso l’Argentina si sviluppò a ridosso dell’unificazione d’Italia del 1861, ma quell’unificazione fu esclusivamente politico-amministrativa, non linguistica. Si può quindi affermare che in Argentina si formò per la prima volta una certa unità linguistica italiana extraterritoriale, questione che il nostro paese poté realizzare sul suo territorio quasi un secolo dopo, esclusivamente con l’avvento della televisione nazionale.
Qui un breve video con una ricostruzione del cocoliche da parte di alcuni attori.
Fonti:
Sabatino Alfondo Annecchiarico, Cocoliche e Lunfardo: l’italiano degli argentini – Storia e lessico di una migrazione linguistica, Mimesis Edizioni, Milano, 2012
Fernando J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Donzelli, Roma, 2007
Samuel L. Baily, Immigrants in the Lands of Promise Italians in Buenos Aires and New York City, 1870 – 1914, Cornell University Press, New York, 2004